Corriere della Sera - La Lettura
La paura del presente (la malattia, il virus) è stata addomesticata ed è diventata la paura del futuro (il lavoro, l’economia, la scuola...)
una frattura generazionale: da una parte i vecchi condannati, dall’altra i giovani. Adesso i giovani sono più colpiti perché non appena è scattato non dico il verde ma il giallo, i ragazzi, che sono vitalissimi portatori sani, si sono rovesciati in strada sentendosi liberi. Per fortuna alcuni si sono resi conto che la partita non era finita. La libertà è un diritto a cui è difficile rinunciare.
SIMONA ARGENTIERI — A proposito dell’uso ambiguo della parola «libertà», penso con sgomento ai conflitti intorno alla chiusura delle discoteche, al «diritto» invocato di stare insieme da parte dei giovani. Ma qui, appunto, vengono a galla problemi sociologici e psicologici di ben più lunga data, quali la non compiuta tappa maturativa, secondo le parole di David Winnicott, della «capacità di stare solo», che non è la chiusura autistica in sé stessi, ma il momento prezioso in cui un bambino scopre di essere capace di stare per un po’ tranquillo a giocare per conto suo, senza aggrapparsi perpetuamente all’attenzione di qualcuno. Soltanto chi è capace di stare solo è poi in grado di intessere un vero rapporto con gli altri, vissuti come persone differenziate e non come sponda di rispecchiamento di sé. È però giusto ammettere che il confine tra diniego del pericolo e paura paranoica dei portatori del contagio, tra responsabilità e arroganza onnipotente, non è netto (giovani/vecchi, governanti/governati, destra/sinistra...). Piuttosto è instabile e fluttuante anche nell’interiorità psichica di uno stesso individuo. Una sorpresa venuta da questo tempo inaspettato?
CHANDRA L. CANDIANI — Mi ha sorpreso il ritorno precipitoso a una socialità vuota. Ma vi ho letto la paura, la fragilità, il fare finta di niente di quando non si sa come fare per contenere lo smarrimento e trasformarlo in azione giusta. Il punto da cui guardo però è cambiato perché da quasi sette mesi vivo in campagna, in un piccolo paese del Piemonte. Qui non ci sono seconde case né turismo, la vita è rimasta quieta e ripetitiva, chiusa la bocciofila e anche il ristorante. Ci sono meno mascherine sulla faccia, ma poi le trovi buttate nel bosco. Le persone faticano a riprendere le loro attività, ma sembrano anche più abituate a soccombere e poi tirarsi di nuovo in piedi, a soffrire, a vivere di poco, ad agire per farcela.
EMANUELE COCCIA — Io ho osservato tutto da molto lontano perché non ero in Italia, ma mi è sembrata una reazione molto civile, al di là di qualche protesta o di qualche meschinità. In generale mi ha sorpreso la velocità con cui popoli interi hanno modificato da un giorno all’altro le proprie abitudini più profonde, corporee e mentali. È stata una dimostrazione del fatto che la nostra vita (indifferentemente dalla sua identità culturale) ha una plasticità che continuiamo a sottovalutare.
EUGENIO BORGNA — Quello che in fondo mi ha sorpreso è stata la rassegnazione con la quale è stato, più o meno consapevolmente, accolto l’obbligo della solitudine con un cambiamento radicale e anzi rivoluzionario di comportamenti. Non parlo di chi abbia o abbia avuto il privilegio di vivere in abitazioni agiate, ma di chi viva ad esempio in una di quelle sterminate periferie con abitazioni l’una vicina all’altra, senza nemmeno la possibilità di un qualche movimento nella giornata. Non ci sono stati segni di ribellione, e questo è stato, mi sembra, un indizio di educazione civile sorprendente e molto più vasto di quello che si potesse immaginare.
CHANDRA L. CANDIANI — Qui vicino c’è un lago, un giorno sono andata a nuotare con il mio compagno in una baia. Mentre eravamo in acqua sono arrivati alcuni turisti che hanno occupato quasi tutto lo spazio con le sdraio portate da casa, incollandole ai nostri asciugamani rimasti a terra. Nessuna distanza. Usciti dall’acqua, abbiamo deciso di asciugarci e andarcene, ma quel che mi ha stupito è che parlavano tra loro del virus e di quanto fosse pericoloso e di chissà cosa ci aspettava in autunno. Le loro parole erano completamente scisse dal loro comportamento. Lontana dal negazionismo e dal complottismo, credo solo nella consapevolezza.
Einstein diceva che la catastrofe dovrebbe essere un invito a ripensare i grandi principi del nostro stare al mondo. Visto in questa chiave, il Covid potrebbe diventare paradossalmente un’occasione perduta.
EMANUELE COCCIA — Uno dei primi insegnamenti che dovremmo trarre dall’esperienza della pandemia è che tutte le vite, umane e non umane, sono legate da un rapporto di continuità. La vita che ci anima è la stessa che anima qualsiasi altro vivente. È per questo che possiamo mangiare e vivere di ciò che mangiamo, ma è per questa stessa ragione che possiamo ammalarci e morire. La vita non appartiene a nessuna specie, ma circola liberamente da una specie all’altra. E che ogni vivente, anche il più piccolo, ha degli effetti vivificanti o assolutamente mortiferi, indipendentemente dalla sua dotazione anatomica. La vita è proprio questo, il fatto che ci sia una dismisura tra cause e conseguenze.
SALVATORE NATOLI — Secondo Hans Magnus Enzensberger, nel mondo sono diventate preziose le cose che una volta erano gratuite: la terra, l’aria, l’acqua... C’è un tasso elevatissimo di urbanizzazione dove è sparita la natura e al quale anche il mondo animale ha dovuto riadattarsi. Tutte cose che si sono accumulate in anni e anni e la cui soluzione richiederebbe tempi lunghi, ma non si vede un impegno serio in questa direzione neanche oggi. Eppure se non c’è una connessione diretta tra gli squilibri ambientali e le epidemie, c’è sì un rapporto indiretto, anche perché gli episodi sono ricorrenti: mucca pazza, aviaria, Sars... Di un ripensamento parlano tutti: anche le agende degli Stati prevedono una revisione degli assetti energetici. Ma nella pratica? Intanto sappiamo, per esempio, che Trump si è sottratto. E poi individualmente bisognerebbe cambiare stili di vita, una metamorfosi che non può avvenire dall’oggi al domani... Aristotele diceva che è più difficile la virtù che il vizio, perché il vizio procede per automatismi, la virtù ha bisogna di cooperazione e responsabilità. Mentre tutti dicono che niente sarà più come prima, il sentimento collettivo, finita la paura, è il desiderio di tornare più o meno a come prima... Ci sono comunque interi settori in cui si produrranno accelerazioni inevitabili. SALVATORE NATOLI — Certamente, uscirà trasformata l’organizzazione del lavoro e dei servizi, ma non sarà una rivoluzione perché tanti fenomeni erano già in atto prima, grazie alla tecnologia digitale. È diverso e più complesso il discorso che riguarda le relazioni umane. Per esempio, nell’insegnamento il contatto diretto resta fondamentale, non si può risolvere tutto con le lezioni da remoto. Nei processi formativi e di apprendimento la circolazione delle idee ha bisogno di relazioni personali e lo scambio delle esperienze si realizza solo in presenza: sono dinamiche ineliminabili almeno finché non interverranno i cyborg e le intelligenze artificiali.
EMANUELE COCCIA — Un’altra cosa su cui bisognerà riflettere è che le case sono spazi da ripensare e ridisegnare. Abbiamo dovuto passare mesi chiusi a casa ed è risultato evidente che in genere non sono spazi abitabili. Si è molto parlato dell’ingiustizia legata alla differenza di taglia degli appartamenti, della presenza o meno di giardini. Ma la verità è che se negli ultimi secoli c’è stata una riflessione incredibile sullo spazio urbano, che ha fatto delle metropoli in occidente luoghi di sperimentazione estrema da un punto di vista culturale, affettivo, artistico... gli spazi domestici sono per lo più calibrati su un modello di vita ottocentesco. Sono spazi intrinsecamente violenti, che non rispondono più ai nostri corpi. Tutto va ripensato, oltre il parallelepipedo. Ci sono architetti che hanno cominciato a lavorare in questo senso (penso a Andrés Jaque e ai suoi Ikea Disobedients) ma sono ancora troppo pochi. Dobbiamo ripensare la casa, aprire i suoi muri, renderli mobili...
Se non arriveremo a elaborare grandi progetti ideali, almeno intimamente ci ritroveremo un po’ trasformati dal trauma?
EUGENIO BORGNA — Un cambiamento di sensibilità e di coscienza c’è stato: indotto dall’eccezionalità degli avvenimenti e in particolare dalle ombre della malattia oscura e dall’imprevedibilità della morte. Ma temo che questi cambiamenti, forse inattesi e in ogni caso straordinari, siano limitati — non intendo generalizzare ovviamente — ai mesi che ci hanno visti con l’ombra della morte del Settimo sigillo di Bergman che incombeva su di noi. La fragilità, della quale parlavo a marzo, è riemersa nel suo significato profondo, cioè nel renderci consapevoli delle insicurezze e delle incertezze che fanno parte della vita, e che solo la coscienza del nostro essere caduchi riesce a contenere. Il mio timore però è che le nostre fragilità vengano rapidamente sommerse da comportamenti di vita slegati dal dubbio e sprofondati invece nelle certezze ideologiche. La fragilità è sembrata riemergere alleata alla speranza, sua sorella gemella. Forse la psichiatria ci rivela il valore nascosto di emozioni considerate come ferite, e che sono invece le tracce verso il cammino di una interiorità, che è la premessa per essere d’aiuto agli altri.
ANTONIO PRETE — La pandemia ha lanciato due avvertimenti. Ha messo allo scoperto il senso del limite che la nostra civiltà tende ad appannare o rimuovere: l’inatteso, l’imprevedibile, l’ignoto, possono in qualsiasi momento presentarsi come minaccia, irrompere sulla scena del mondo, sconvolgere ritmi e forme di una civiltà. La ginestra di Leopardi è anche per questo un canto che riguarda in profondità il nostro tempo. La pandemia ha inoltre mostrato come la perseguita distanza dalla natura, la manipolazione della natura, la rottura dell’equilibrio armonico con la natura, possono rendere l’uomo meno protetto, più esposto. La lettura dei classici contribuisce ad acquisire questa consapevolezza?
ANTONIO PRETE — Dai tragici greci al romanzo moderno alla poesia si vede con chiarezza il senso della finitudine. Anche nelle narrazioni delle epidemie, da Tucidide a Boccaccio a Camus, emerge la presenza del dolore e la coscienza del limite in cui l’uomo è posto. Rileggendo La peste, mi ha colpito il grande equilibrio del dottor Rieux, che a contatto con il dolore e con la morte dimostra responsabilità, dedizione e compassione.
Tante storie simili, e anche drammatiche, di medici e infermieri sono state raccontate dalle cronache. Ian McEwan ha detto che tutto sommato il virus è stato una non inutile «lezione di immobilità e di resistenza».
CHANDRA L. CANDIANI — Mi sento grata a questo virus perché mi ha risvegliato, mi ha ricordato che la vita è pericolosa e sempre a rischio. Non solo altrove, ma qui, proprio nella nostra casa. E che sono legata ad altri, che contagio e sono contagiata. Mi ha fatto perdere il lavoro politico e interiore di insegnare meditazione agli adulti e poesia ai bambini. Mi ha fatto capire che «spirituale» significa per me «rivoluzionario», rivoluzionare le mie abitudini, i miei condizionamenti, l’ingessarsi delle opinioni che chiamiamo personalità. Mi ha fatto sentire che desidero insegnare solo a chi è disposto a una rivoluzione interiore. Mi ha insegnato che sono «abbandonabile», ho perso varie persone, non per morte fisica, ma per distanza interiore, e sono sopravvissuta e ho percepito il vertiginoso spazio della solitudine scelta per libertà dal noto e dal risaputo. Mi ha fatto crescere e invecchiare sia il corpo che l’anima. E sarà un grande lavoro accogliere la vecchiaia come fase preziosa e chi invecchia come specie protetta. Mi ha regalato il regno vegetale e animale a cui ora appartengo con nuova gioia dopo gli ultimi anni passati in città con un senso doloroso di isolamento etico e di ricerca di silenzio e quiete dove trovavo solo affaccendarsi e desiderio di conquista, di qualunque cosa si trattasse, anche di conquista «spirituale». Ma può esistere una cosa simile? Mi ha fatto percepire che ci sono tanti come me, nascosti e confusi, che lotteranno per non essere gli stessi di prima, messi a tacere e chiusi nell’angolo.
Quale immagine, tra le tante, conserveremo nella memoria futura? CHANDRA L. CANDIANI — I morti partiti da soli, silenziosi e anonimi, sui camion militari. I guidatori di quei camion. Gli animali che nel bosco spuntavano perplessi non sentendo più i rumori del più pericoloso dei predatori.
ANTONIO PRETE — Le altre immagini in qualche modo hanno una spiegazione: il Papa da solo in Piazza San Pietro, gli infermieri prostrati dalla stanchezza... Ma le bare sui camion hanno mostrato il volto tragico della pandemia, l’impossibilità dell’esercizio della compassione. Al resto ci siamo abituati, a quelle immagini no.
EUGENIO BORGNA — Ciascuno di noi ha risonanze emozionali diverse dinanzi agli avvenimenti dolorosi e strazianti della vita: sulla scia delle nostre sensibilità e della nostra impressionabilità, delle nostre fragilità e delle nostre esperienze. La mia memoria sarà ferita per sempre dalle immagini, che scorrevano fredde e impersonali sugli schermi, della morte lacerata nella sua dignità e nella sua riservatezza, come quella delle prime settimane di pandemia. La morte si accompagna ogni giorno alla nostra vita in mille dolorose circostanze: la morte naturale, la morte causata dalle malattie, e dalla sventura, dalla violenza, e dal deserto del cuore; e ogni volta siamo chiamati a prenderne coscienza: sia pure nel dolore, nella rassegnazione, e nella preghiera. Ma la morte in quelle bare è stata una morte slabbrata e reificata, perduta in un atroce isolamento. Il silenzio della morte, la solitudine della morte, la sacralità della morte, nulla di tutto questo nelle immagini che continuavano a scorrere in televisione. Non so se sia stato giusto rendere così evidente nella sua insostenibile incandescenza quello che è avvenuto. Adesso che cosa dobbiamo temere di più? SIMONA ARGENTIERI — Il tempo che ci aspetta sarà il più difficile. Anche per quel che riguarda la ripresa del lavoro clinico di psicoanalisi e di psicoterapia, dovremo continuare a confrontarci con la provvisorietà e l’incertezza. Dovremo tollerare ancora il distanziamento, il saluto senza stretta di mano, le mascherine che ci privano della preziosa comunicazione delle espressioni facciali. Nella fase della clausura le regole erano più drastiche, più nette. Magari protestando e polemizzando, era chiaro a tutti cosa si dovesse fare o non fare. Ora bisognerà negoziare tra la prudenza e le necessità della vita sociale e lavorativa, ciascuno sarà responsabile di tante piccole scelte quotidiane. Quella «libertà», da taluni polemicamente invocata contro le restrizioni, può rivelarsi un gran peso. Insomma, passeremo dal momento dell’emergenza, che sempre porta con sé una carica energetica eccezionale, alla fatica antieroica di un tempo lungo e dilatato. In sintesi, credo che ora ci aspetti il compito più improbo: quello — secondo le parole di Wilfred Bion — di «apprendere dall’esperienza», cioè di non ripetere gli errori. Secondo la psicoanalisi, una sana «capacità di preoccuparsi» in modo realistico — nel senso di prendersi cura di sé e degli altri — è una funzione psichica importante. Altrimenti si oscilla tra incoscienza infantile e angoscia nevrotica inconcludente. Un autore a cui può ricorrere un lettore di buona volontà per un consiglio e un aiuto? EMANUELE COCCIA — Due classici. Lucrezio, il De rerum natura, il primo a provare a pensare e a descrivere la peste. E soprattutto le Metamorfosi di Ovidio. Viviamo un momento in cui non solo la specie umana e le sue infinite nazioni, ma tutto il pianeta sta attraversando una profonda metamorfosi, ecologica, climatica, politica, culturale. Il pianeta è un immenso bozzolo e non è chiaro se quello che ne uscirà fuori sarà una farfalla.
CHANDRA L. CANDIANI — Dostoevskij, I fratelli Karamazov, perché insegna cos’è una crisi della coscienza e come è nobile saper crollare. Osip Mandel’stam, il grande poeta russo che ha scritto: «E nelle notti a testa nuda ululando/ ho imparato la scienza degli addii». E il Buddha che all’origine di tutto ha messo una semplice affermazione: «La sofferenza c’è».