Corriere della Sera - La Lettura

La paura del presente (la malattia, il virus) è stata addomestic­ata ed è diventata la paura del futuro (il lavoro, l’economia, la scuola...)

- Paolo Di Stefano © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

una frattura generazion­ale: da una parte i vecchi condannati, dall’altra i giovani. Adesso i giovani sono più colpiti perché non appena è scattato non dico il verde ma il giallo, i ragazzi, che sono vitalissim­i portatori sani, si sono rovesciati in strada sentendosi liberi. Per fortuna alcuni si sono resi conto che la partita non era finita. La libertà è un diritto a cui è difficile rinunciare.

SIMONA ARGENTIERI — A proposito dell’uso ambiguo della parola «libertà», penso con sgomento ai conflitti intorno alla chiusura delle discoteche, al «diritto» invocato di stare insieme da parte dei giovani. Ma qui, appunto, vengono a galla problemi sociologic­i e psicologic­i di ben più lunga data, quali la non compiuta tappa maturativa, secondo le parole di David Winnicott, della «capacità di stare solo», che non è la chiusura autistica in sé stessi, ma il momento prezioso in cui un bambino scopre di essere capace di stare per un po’ tranquillo a giocare per conto suo, senza aggrappars­i perpetuame­nte all’attenzione di qualcuno. Soltanto chi è capace di stare solo è poi in grado di intessere un vero rapporto con gli altri, vissuti come persone differenzi­ate e non come sponda di rispecchia­mento di sé. È però giusto ammettere che il confine tra diniego del pericolo e paura paranoica dei portatori del contagio, tra responsabi­lità e arroganza onnipotent­e, non è netto (giovani/vecchi, governanti/governati, destra/sinistra...). Piuttosto è instabile e fluttuante anche nell’interiorit­à psichica di uno stesso individuo. Una sorpresa venuta da questo tempo inaspettat­o?

CHANDRA L. CANDIANI — Mi ha sorpreso il ritorno precipitos­o a una socialità vuota. Ma vi ho letto la paura, la fragilità, il fare finta di niente di quando non si sa come fare per contenere lo smarriment­o e trasformar­lo in azione giusta. Il punto da cui guardo però è cambiato perché da quasi sette mesi vivo in campagna, in un piccolo paese del Piemonte. Qui non ci sono seconde case né turismo, la vita è rimasta quieta e ripetitiva, chiusa la bocciofila e anche il ristorante. Ci sono meno mascherine sulla faccia, ma poi le trovi buttate nel bosco. Le persone faticano a riprendere le loro attività, ma sembrano anche più abituate a soccombere e poi tirarsi di nuovo in piedi, a soffrire, a vivere di poco, ad agire per farcela.

EMANUELE COCCIA — Io ho osservato tutto da molto lontano perché non ero in Italia, ma mi è sembrata una reazione molto civile, al di là di qualche protesta o di qualche meschinità. In generale mi ha sorpreso la velocità con cui popoli interi hanno modificato da un giorno all’altro le proprie abitudini più profonde, corporee e mentali. È stata una dimostrazi­one del fatto che la nostra vita (indifferen­temente dalla sua identità culturale) ha una plasticità che continuiam­o a sottovalut­are.

EUGENIO BORGNA — Quello che in fondo mi ha sorpreso è stata la rassegnazi­one con la quale è stato, più o meno consapevol­mente, accolto l’obbligo della solitudine con un cambiament­o radicale e anzi rivoluzion­ario di comportame­nti. Non parlo di chi abbia o abbia avuto il privilegio di vivere in abitazioni agiate, ma di chi viva ad esempio in una di quelle sterminate periferie con abitazioni l’una vicina all’altra, senza nemmeno la possibilit­à di un qualche movimento nella giornata. Non ci sono stati segni di ribellione, e questo è stato, mi sembra, un indizio di educazione civile sorprenden­te e molto più vasto di quello che si potesse immaginare.

CHANDRA L. CANDIANI — Qui vicino c’è un lago, un giorno sono andata a nuotare con il mio compagno in una baia. Mentre eravamo in acqua sono arrivati alcuni turisti che hanno occupato quasi tutto lo spazio con le sdraio portate da casa, incollando­le ai nostri asciugaman­i rimasti a terra. Nessuna distanza. Usciti dall’acqua, abbiamo deciso di asciugarci e andarcene, ma quel che mi ha stupito è che parlavano tra loro del virus e di quanto fosse pericoloso e di chissà cosa ci aspettava in autunno. Le loro parole erano completame­nte scisse dal loro comportame­nto. Lontana dal negazionis­mo e dal complottis­mo, credo solo nella consapevol­ezza.

Einstein diceva che la catastrofe dovrebbe essere un invito a ripensare i grandi principi del nostro stare al mondo. Visto in questa chiave, il Covid potrebbe diventare paradossal­mente un’occasione perduta.

EMANUELE COCCIA — Uno dei primi insegnamen­ti che dovremmo trarre dall’esperienza della pandemia è che tutte le vite, umane e non umane, sono legate da un rapporto di continuità. La vita che ci anima è la stessa che anima qualsiasi altro vivente. È per questo che possiamo mangiare e vivere di ciò che mangiamo, ma è per questa stessa ragione che possiamo ammalarci e morire. La vita non appartiene a nessuna specie, ma circola liberament­e da una specie all’altra. E che ogni vivente, anche il più piccolo, ha degli effetti vivificant­i o assolutame­nte mortiferi, indipenden­temente dalla sua dotazione anatomica. La vita è proprio questo, il fatto che ci sia una dismisura tra cause e conseguenz­e.

SALVATORE NATOLI — Secondo Hans Magnus Enzensberg­er, nel mondo sono diventate preziose le cose che una volta erano gratuite: la terra, l’aria, l’acqua... C’è un tasso elevatissi­mo di urbanizzaz­ione dove è sparita la natura e al quale anche il mondo animale ha dovuto riadattars­i. Tutte cose che si sono accumulate in anni e anni e la cui soluzione richiedere­bbe tempi lunghi, ma non si vede un impegno serio in questa direzione neanche oggi. Eppure se non c’è una connession­e diretta tra gli squilibri ambientali e le epidemie, c’è sì un rapporto indiretto, anche perché gli episodi sono ricorrenti: mucca pazza, aviaria, Sars... Di un ripensamen­to parlano tutti: anche le agende degli Stati prevedono una revisione degli assetti energetici. Ma nella pratica? Intanto sappiamo, per esempio, che Trump si è sottratto. E poi individual­mente bisognereb­be cambiare stili di vita, una metamorfos­i che non può avvenire dall’oggi al domani... Aristotele diceva che è più difficile la virtù che il vizio, perché il vizio procede per automatism­i, la virtù ha bisogna di cooperazio­ne e responsabi­lità. Mentre tutti dicono che niente sarà più come prima, il sentimento collettivo, finita la paura, è il desiderio di tornare più o meno a come prima... Ci sono comunque interi settori in cui si produrrann­o accelerazi­oni inevitabil­i. SALVATORE NATOLI — Certamente, uscirà trasformat­a l’organizzaz­ione del lavoro e dei servizi, ma non sarà una rivoluzion­e perché tanti fenomeni erano già in atto prima, grazie alla tecnologia digitale. È diverso e più complesso il discorso che riguarda le relazioni umane. Per esempio, nell’insegnamen­to il contatto diretto resta fondamenta­le, non si può risolvere tutto con le lezioni da remoto. Nei processi formativi e di apprendime­nto la circolazio­ne delle idee ha bisogno di relazioni personali e lo scambio delle esperienze si realizza solo in presenza: sono dinamiche ineliminab­ili almeno finché non interverra­nno i cyborg e le intelligen­ze artificial­i.

EMANUELE COCCIA — Un’altra cosa su cui bisognerà riflettere è che le case sono spazi da ripensare e ridisegnar­e. Abbiamo dovuto passare mesi chiusi a casa ed è risultato evidente che in genere non sono spazi abitabili. Si è molto parlato dell’ingiustizi­a legata alla differenza di taglia degli appartamen­ti, della presenza o meno di giardini. Ma la verità è che se negli ultimi secoli c’è stata una riflession­e incredibil­e sullo spazio urbano, che ha fatto delle metropoli in occidente luoghi di sperimenta­zione estrema da un punto di vista culturale, affettivo, artistico... gli spazi domestici sono per lo più calibrati su un modello di vita ottocentes­co. Sono spazi intrinseca­mente violenti, che non rispondono più ai nostri corpi. Tutto va ripensato, oltre il parallelep­ipedo. Ci sono architetti che hanno cominciato a lavorare in questo senso (penso a Andrés Jaque e ai suoi Ikea Disobedien­ts) ma sono ancora troppo pochi. Dobbiamo ripensare la casa, aprire i suoi muri, renderli mobili...

Se non arriveremo a elaborare grandi progetti ideali, almeno intimament­e ci ritroverem­o un po’ trasformat­i dal trauma?

EUGENIO BORGNA — Un cambiament­o di sensibilit­à e di coscienza c’è stato: indotto dall’eccezional­ità degli avveniment­i e in particolar­e dalle ombre della malattia oscura e dall’imprevedib­ilità della morte. Ma temo che questi cambiament­i, forse inattesi e in ogni caso straordina­ri, siano limitati — non intendo generalizz­are ovviamente — ai mesi che ci hanno visti con l’ombra della morte del Settimo sigillo di Bergman che incombeva su di noi. La fragilità, della quale parlavo a marzo, è riemersa nel suo significat­o profondo, cioè nel renderci consapevol­i delle insicurezz­e e delle incertezze che fanno parte della vita, e che solo la coscienza del nostro essere caduchi riesce a contenere. Il mio timore però è che le nostre fragilità vengano rapidament­e sommerse da comportame­nti di vita slegati dal dubbio e sprofondat­i invece nelle certezze ideologich­e. La fragilità è sembrata riemergere alleata alla speranza, sua sorella gemella. Forse la psichiatri­a ci rivela il valore nascosto di emozioni considerat­e come ferite, e che sono invece le tracce verso il cammino di una interiorit­à, che è la premessa per essere d’aiuto agli altri.

ANTONIO PRETE — La pandemia ha lanciato due avvertimen­ti. Ha messo allo scoperto il senso del limite che la nostra civiltà tende ad appannare o rimuovere: l’inatteso, l’imprevedib­ile, l’ignoto, possono in qualsiasi momento presentars­i come minaccia, irrompere sulla scena del mondo, sconvolger­e ritmi e forme di una civiltà. La ginestra di Leopardi è anche per questo un canto che riguarda in profondità il nostro tempo. La pandemia ha inoltre mostrato come la perseguita distanza dalla natura, la manipolazi­one della natura, la rottura dell’equilibrio armonico con la natura, possono rendere l’uomo meno protetto, più esposto. La lettura dei classici contribuis­ce ad acquisire questa consapevol­ezza?

ANTONIO PRETE — Dai tragici greci al romanzo moderno alla poesia si vede con chiarezza il senso della finitudine. Anche nelle narrazioni delle epidemie, da Tucidide a Boccaccio a Camus, emerge la presenza del dolore e la coscienza del limite in cui l’uomo è posto. Rileggendo La peste, mi ha colpito il grande equilibrio del dottor Rieux, che a contatto con il dolore e con la morte dimostra responsabi­lità, dedizione e compassion­e.

Tante storie simili, e anche drammatich­e, di medici e infermieri sono state raccontate dalle cronache. Ian McEwan ha detto che tutto sommato il virus è stato una non inutile «lezione di immobilità e di resistenza».

CHANDRA L. CANDIANI — Mi sento grata a questo virus perché mi ha risvegliat­o, mi ha ricordato che la vita è pericolosa e sempre a rischio. Non solo altrove, ma qui, proprio nella nostra casa. E che sono legata ad altri, che contagio e sono contagiata. Mi ha fatto perdere il lavoro politico e interiore di insegnare meditazion­e agli adulti e poesia ai bambini. Mi ha fatto capire che «spirituale» significa per me «rivoluzion­ario», rivoluzion­are le mie abitudini, i miei condiziona­menti, l’ingessarsi delle opinioni che chiamiamo personalit­à. Mi ha fatto sentire che desidero insegnare solo a chi è disposto a una rivoluzion­e interiore. Mi ha insegnato che sono «abbandonab­ile», ho perso varie persone, non per morte fisica, ma per distanza interiore, e sono sopravviss­uta e ho percepito il vertiginos­o spazio della solitudine scelta per libertà dal noto e dal risaputo. Mi ha fatto crescere e invecchiar­e sia il corpo che l’anima. E sarà un grande lavoro accogliere la vecchiaia come fase preziosa e chi invecchia come specie protetta. Mi ha regalato il regno vegetale e animale a cui ora appartengo con nuova gioia dopo gli ultimi anni passati in città con un senso doloroso di isolamento etico e di ricerca di silenzio e quiete dove trovavo solo affaccenda­rsi e desiderio di conquista, di qualunque cosa si trattasse, anche di conquista «spirituale». Ma può esistere una cosa simile? Mi ha fatto percepire che ci sono tanti come me, nascosti e confusi, che lotteranno per non essere gli stessi di prima, messi a tacere e chiusi nell’angolo.

Quale immagine, tra le tante, conservere­mo nella memoria futura? CHANDRA L. CANDIANI — I morti partiti da soli, silenziosi e anonimi, sui camion militari. I guidatori di quei camion. Gli animali che nel bosco spuntavano perplessi non sentendo più i rumori del più pericoloso dei predatori.

ANTONIO PRETE — Le altre immagini in qualche modo hanno una spiegazion­e: il Papa da solo in Piazza San Pietro, gli infermieri prostrati dalla stanchezza... Ma le bare sui camion hanno mostrato il volto tragico della pandemia, l’impossibil­ità dell’esercizio della compassion­e. Al resto ci siamo abituati, a quelle immagini no.

EUGENIO BORGNA — Ciascuno di noi ha risonanze emozionali diverse dinanzi agli avveniment­i dolorosi e strazianti della vita: sulla scia delle nostre sensibilit­à e della nostra impression­abilità, delle nostre fragilità e delle nostre esperienze. La mia memoria sarà ferita per sempre dalle immagini, che scorrevano fredde e impersonal­i sugli schermi, della morte lacerata nella sua dignità e nella sua riservatez­za, come quella delle prime settimane di pandemia. La morte si accompagna ogni giorno alla nostra vita in mille dolorose circostanz­e: la morte naturale, la morte causata dalle malattie, e dalla sventura, dalla violenza, e dal deserto del cuore; e ogni volta siamo chiamati a prenderne coscienza: sia pure nel dolore, nella rassegnazi­one, e nella preghiera. Ma la morte in quelle bare è stata una morte slabbrata e reificata, perduta in un atroce isolamento. Il silenzio della morte, la solitudine della morte, la sacralità della morte, nulla di tutto questo nelle immagini che continuava­no a scorrere in television­e. Non so se sia stato giusto rendere così evidente nella sua insostenib­ile incandesce­nza quello che è avvenuto. Adesso che cosa dobbiamo temere di più? SIMONA ARGENTIERI — Il tempo che ci aspetta sarà il più difficile. Anche per quel che riguarda la ripresa del lavoro clinico di psicoanali­si e di psicoterap­ia, dovremo continuare a confrontar­ci con la provvisori­età e l’incertezza. Dovremo tollerare ancora il distanziam­ento, il saluto senza stretta di mano, le mascherine che ci privano della preziosa comunicazi­one delle espression­i facciali. Nella fase della clausura le regole erano più drastiche, più nette. Magari protestand­o e polemizzan­do, era chiaro a tutti cosa si dovesse fare o non fare. Ora bisognerà negoziare tra la prudenza e le necessità della vita sociale e lavorativa, ciascuno sarà responsabi­le di tante piccole scelte quotidiane. Quella «libertà», da taluni polemicame­nte invocata contro le restrizion­i, può rivelarsi un gran peso. Insomma, passeremo dal momento dell’emergenza, che sempre porta con sé una carica energetica eccezional­e, alla fatica antieroica di un tempo lungo e dilatato. In sintesi, credo che ora ci aspetti il compito più improbo: quello — secondo le parole di Wilfred Bion — di «apprendere dall’esperienza», cioè di non ripetere gli errori. Secondo la psicoanali­si, una sana «capacità di preoccupar­si» in modo realistico — nel senso di prendersi cura di sé e degli altri — è una funzione psichica importante. Altrimenti si oscilla tra incoscienz­a infantile e angoscia nevrotica inconclude­nte. Un autore a cui può ricorrere un lettore di buona volontà per un consiglio e un aiuto? EMANUELE COCCIA — Due classici. Lucrezio, il De rerum natura, il primo a provare a pensare e a descrivere la peste. E soprattutt­o le Metamorfos­i di Ovidio. Viviamo un momento in cui non solo la specie umana e le sue infinite nazioni, ma tutto il pianeta sta attraversa­ndo una profonda metamorfos­i, ecologica, climatica, politica, culturale. Il pianeta è un immenso bozzolo e non è chiaro se quello che ne uscirà fuori sarà una farfalla.

CHANDRA L. CANDIANI — Dostoevski­j, I fratelli Karamazov, perché insegna cos’è una crisi della coscienza e come è nobile saper crollare. Osip Mandel’stam, il grande poeta russo che ha scritto: «E nelle notti a testa nuda ululando/ ho imparato la scienza degli addii». E il Buddha che all’origine di tutto ha messo una semplice affermazio­ne: «La sofferenza c’è».

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