Corriere della Sera - La Lettura
MAMMA, SI GIRA!
Con l’età si rimbambisce (che non è mica una brutta parola), e infatti mia madre, novanta primavere e un filino di Alzheimer, era ricaduta in piena fase «no»: quella che compare nell’infanzia, e quasi sempre si ripropone nell’adolescenza.
Fatto sta che s’era coricata un giorno, da sola, completamente vestita, e adesso non si voleva più né alzare, né cambiare. Sotto le coperte scoprimmo che aveva anche una borsa, alla quale stava abbarbicata come un naufrago al salvagente. Probabilmente progettava di partire, o aspettava che qualcuno la venisse a prendere. Gli smemorati non hanno più il senso del tempo, e questo li rende fedeli come i cani. Per cui non c’era modo di distrarla. Qualsiasi cosa le si proponesse di fare, mangiare, vedere, ascoltare, provare, la risposta era una e una sola: «No!». A volte il diniego era ripetuto. Anzi, siccome lei possedeva un’innata musicalità (in gioventù era stata un buon soprano naturale, nonché passabile pianista), la parola giusta sarebbe ribattuto. Proprio come una nota. E ce n’era per tutti i gusti. Il suo «no» poteva essere sincopato come un ritmo afroamericano, e in questo caso suonava più o meno così: «No-nonnòo-no!». Oppure virtuosistico, paganiniano: «Nononononòoo-nonò-nonònno-no!». Una volta, e fu da brividi, mi parve persino beethoveniano. Nota base e quarta inferiore: «No-nno-nno... NOOOO! No-nno-nno NOOOO!», proprio come l’attacco leggendario della Quinta sinfonia in Do minore.
A sbloccare lo stallo di quella fase negazionista, fu mio figlio Tancredi, che allora aveva nove anni, e un giorno — dopo quasi una settimana che non riuscivamo a toglierle di dosso gli stessi abiti — le disse: «Nonna, non devi aver paura di cambiarti. Dovresti essere contenta, invece, ti hanno scelta per il film!».
L’idea di fare un film, forse il suono stesso di quella parola, o l’evocazione involontaria di chissà quale lontana suggestione, perduta nelle più remote galassie della sua memoria, la toccò profondamente. Mia madre si voltò verso di lui con gli occhi spalancati, poi verso di me, infine verso mia moglie Giorgia: e finalmente pronunciò quel sibilante monosillabo che tutti aspettavamo, come i contadini aspettano la pioggia nei periodi di siccità: «Sì!».
Non bisognava darle il tempo di ripensarci. Mio figlio uscì dalla camera, e io e mia moglie, che non mi faceva mai mancare il suo prezioso aiuto, partimmo all’attacco. Come in un commando, ognuno sapeva già che cosa fare. Io la sollevai dal letto e, mentre la adagiavo sulla sedia a rotelle (in gergo «la navetta»), mia moglie le sfilò le scarpe. La spinsi in bagno e lì, di nuovo, prima di entrare, lei fece resistenza. Ma prontamente intervenne di nuovo Tancredi, che da lontano gridò: «Accendete le luci! Le luci del set!». Accendemmo la plafoniera sul soffitto, i led dello specchio, il faretto della lente da trucco a parete e Giorgia accese pure il flash del telefonino: una secchiata di luce bianca inondò il bagno, rendendo l’ambiente vagamente irreale.
Mia madre sorrise, e cedette. Non fu possibile farle una doccia, ma una sciacquatina al viso e alle braccia, gliela potei dare. Per il resto usammo salviette detergenti, anche se io mi sentivo lo shampista a secco di una tolettatura per animali. Giorgia mi aiutò a evitare un contatto eccessivo con l’intimità di mia madre, al quale non ero ancora preparato. Poi una veloce pettinata, e tornammo in camera da letto. La cambiammo e lei acconsentì anche a stare un po’ in poltrona.
Mi sembrava quasi un miracolo: il granitico, funereo rigore degli ultimi giorni s’era frantumato di colpo, grazie all’idea del film. E si tornava alla speranza, al desiderio, alla vita.
Con il tempo pensavo che si sarebbe dimenticata di dover esordire come attrice. Ma Lorenzo, l’altro mio figlio, che di anni ne aveva ventitré, profetizzò: «Se ne ricorderà quando sarà il momento». E così fu.
Un anno dopo, mentre era ricoverata in ospedale, mia madre mi guardò e mormorò: «Sono la protagonista...». In quel momento, il dono della preveggenza sfiorò anche me: eravamo al capolinea. Anzi, al finale. Ognuno di noi deve interpretare sé stesso fino in fondo, e ci deve mettere tutto il suo coraggio. Era venuto il momento di essere spericolatamente felici, e grati alla vita, proprio mentre si portava via tutto. Era l’ultima scena. La più vera. Quella in cui noi, fragili ma orgogliosi arrivederci, dovevamo dimostrare di esserci amati così profondamente da saperci dire addio.