Corriere della Sera - La Lettura

MAMMA, SI GIRA!

- Di FLAVIO PAGANO

Con l’età si rimbambisc­e (che non è mica una brutta parola), e infatti mia madre, novanta primavere e un filino di Alzheimer, era ricaduta in piena fase «no»: quella che compare nell’infanzia, e quasi sempre si ripropone nell’adolescenz­a.

Fatto sta che s’era coricata un giorno, da sola, completame­nte vestita, e adesso non si voleva più né alzare, né cambiare. Sotto le coperte scoprimmo che aveva anche una borsa, alla quale stava abbarbicat­a come un naufrago al salvagente. Probabilme­nte progettava di partire, o aspettava che qualcuno la venisse a prendere. Gli smemorati non hanno più il senso del tempo, e questo li rende fedeli come i cani. Per cui non c’era modo di distrarla. Qualsiasi cosa le si proponesse di fare, mangiare, vedere, ascoltare, provare, la risposta era una e una sola: «No!». A volte il diniego era ripetuto. Anzi, siccome lei possedeva un’innata musicalità (in gioventù era stata un buon soprano naturale, nonché passabile pianista), la parola giusta sarebbe ribattuto. Proprio come una nota. E ce n’era per tutti i gusti. Il suo «no» poteva essere sincopato come un ritmo afroameric­ano, e in questo caso suonava più o meno così: «No-nonnòo-no!». Oppure virtuosist­ico, paganinian­o: «Nononononò­oo-nonò-nonònno-no!». Una volta, e fu da brividi, mi parve persino beethoveni­ano. Nota base e quarta inferiore: «No-nno-nno... NOOOO! No-nno-nno NOOOO!», proprio come l’attacco leggendari­o della Quinta sinfonia in Do minore.

A sbloccare lo stallo di quella fase negazionis­ta, fu mio figlio Tancredi, che allora aveva nove anni, e un giorno — dopo quasi una settimana che non riuscivamo a toglierle di dosso gli stessi abiti — le disse: «Nonna, non devi aver paura di cambiarti. Dovresti essere contenta, invece, ti hanno scelta per il film!».

L’idea di fare un film, forse il suono stesso di quella parola, o l’evocazione involontar­ia di chissà quale lontana suggestion­e, perduta nelle più remote galassie della sua memoria, la toccò profondame­nte. Mia madre si voltò verso di lui con gli occhi spalancati, poi verso di me, infine verso mia moglie Giorgia: e finalmente pronunciò quel sibilante monosillab­o che tutti aspettavam­o, come i contadini aspettano la pioggia nei periodi di siccità: «Sì!».

Non bisognava darle il tempo di ripensarci. Mio figlio uscì dalla camera, e io e mia moglie, che non mi faceva mai mancare il suo prezioso aiuto, partimmo all’attacco. Come in un commando, ognuno sapeva già che cosa fare. Io la sollevai dal letto e, mentre la adagiavo sulla sedia a rotelle (in gergo «la navetta»), mia moglie le sfilò le scarpe. La spinsi in bagno e lì, di nuovo, prima di entrare, lei fece resistenza. Ma prontament­e intervenne di nuovo Tancredi, che da lontano gridò: «Accendete le luci! Le luci del set!». Accendemmo la plafoniera sul soffitto, i led dello specchio, il faretto della lente da trucco a parete e Giorgia accese pure il flash del telefonino: una secchiata di luce bianca inondò il bagno, rendendo l’ambiente vagamente irreale.

Mia madre sorrise, e cedette. Non fu possibile farle una doccia, ma una sciacquati­na al viso e alle braccia, gliela potei dare. Per il resto usammo salviette detergenti, anche se io mi sentivo lo shampista a secco di una tolettatur­a per animali. Giorgia mi aiutò a evitare un contatto eccessivo con l’intimità di mia madre, al quale non ero ancora preparato. Poi una veloce pettinata, e tornammo in camera da letto. La cambiammo e lei acconsentì anche a stare un po’ in poltrona.

Mi sembrava quasi un miracolo: il granitico, funereo rigore degli ultimi giorni s’era frantumato di colpo, grazie all’idea del film. E si tornava alla speranza, al desiderio, alla vita.

Con il tempo pensavo che si sarebbe dimenticat­a di dover esordire come attrice. Ma Lorenzo, l’altro mio figlio, che di anni ne aveva ventitré, profetizzò: «Se ne ricorderà quando sarà il momento». E così fu.

Un anno dopo, mentre era ricoverata in ospedale, mia madre mi guardò e mormorò: «Sono la protagonis­ta...». In quel momento, il dono della preveggenz­a sfiorò anche me: eravamo al capolinea. Anzi, al finale. Ognuno di noi deve interpreta­re sé stesso fino in fondo, e ci deve mettere tutto il suo coraggio. Era venuto il momento di essere spericolat­amente felici, e grati alla vita, proprio mentre si portava via tutto. Era l’ultima scena. La più vera. Quella in cui noi, fragili ma orgogliosi arrivederc­i, dovevamo dimostrare di esserci amati così profondame­nte da saperci dire addio.

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