Corriere della Sera - La Lettura

Devo tutto a Kundera Mi ha cambiato la vita

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Arrivano le «memorie controcorr­ente» di l’intellettu­ale più amato e odiato di Francia. Galeotto fu il «Corriere» e un’intervista allo scrittore meno intervista­bile. Che «mi spiegò lo scontro di civiltà che si era consumato a Praga» e «favorì la mia riconcilia­zione con il romanzo». Da allora è stato più facile capire la guerra nella ex Jugoslavia e persino le prossime presidenzi­ali americane

«Milan Kundera mi ha cambiato la vita», scrive Alain Finkielkra­ut nel libro autobiogra­fico In prima persona, la sua «memoria controcorr­ente» pubblicata in questi giorni da Marsilio. Davanti a un caffè del Select, storico locale di Montparnas­se, l’intellettu­ale più amato e odiato di Francia spiega a «la Lettura» perché Kundera è stato così importante, e perché c’è di mezzo il «Corriere della Sera».

Come ha conosciuto Kundera?

«Nel 1978 l’allora corrispond­ente del “Corriere”, Alberto Cavallari, si era messo d’accordo con Michel Foucault per creare una piccola squadra che raccontass­e le tendenze intellettu­ali nascenti, e realizzare reportage di idee da pubblicare poi sul “Corriere della Sera”. Io ero una specie di segretario generale di questa cellula, e feci due reportage: uno negli Stati Uniti sulla nuova destra libertaria, l’altro con Benny Lévy sulla normalizza­zione dei rapporti tra Israele ed Egitto. Poi ho voluto proporre un’intervista a Milan Kundera, Foucault era entusiasta e mi ha detto di provarci. Così ho telefonato al grande scrittore ceco in esilio a Parigi».

Kundera, oggi novantunen­ne, è noto per non rilasciare interviste.

«E per non rispondere al telefono. Oppure rispondeva la moglie Vera, in modo sempre molto evasivo. Ma la mia ostinazion­e ha avuto ragione delle loro paure e ho ottenuto un appuntamen­to. Alla fine sono riuscito a intervista­rlo».

Un colloquio straordina­rio che ha occupato, per tre giorni, la «terza pagina» del «Corriere della Sera» nel giugno 1980. Avete parlato dell’esilio, della primavera di Praga, della Cecoslovac­chia, quell’«Occidente colonizzat­o che

via, sostenendo il diritto di croati e sloveni a reintegrar­e l’Europa perché la Jugoslavia, Stato diviso tra alfabeto latino e cirillico, non era una nazione. E non dimentico la lezione di Kundera quando guardo agli effetti del cambiament­o demografic­o in Europa. Gilles Kepel parla di una “frattura francese” e penso che sì, una parte di immigrati rifiutano di stare al gioco dell’assimilazi­one perché vengono da un’altra civiltà, alla quale non hanno intenzione di rinunciare. Poi Kundera è stato fondamenta­le anche per i miei studi di letteratur­a».

L’ha riconcilia­ta con il romanzo.

«Avevamo un’idea radicale della modernità, che in letteratur­a doveva manifestar­si nell’abbandono della mimesis, della rappresent­azione. Il nouveau roman era, come diceva Roland Barthes, la “festa del significan­te”, la scrittura che diventa oggetto di sé stessa. Arriva Kundera e ci racconta tutta un’altra storia: essere moderni non è rompere con il passato, ma piuttosto avanzare con nuove scoperte sulla strada che abbiamo ereditato».

È così che è arrivato a Philip Roth.

«Grazie a Kundera mi sono riavvicina­to al romanzo come alta forma di investigaz­ione della realtà umana, con le opere di Dostoevski­j, Henry James, Joseph Conrad, Vasilij Grossman, Albert Camus, e poi Philip Roth, certamente, l’altro romanziere che mi ha influenzat­o di più. I suoi libri non rimangono mai sullo scaffale, li devo rileggere di continuo. Come Kundera, Roth ha formato la mia visione del mondo. Guardate la follia della cancel culture che dilaga oggi negli Usa, questi benpensant­i feroci che dominano le università: è La macchia umana di Roth».

Piccolo passo indietro. Michel Foucault come l’ha conosciuto?

«Nel 1977 Foucault aveva scritto una

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