Corriere della Sera - La Lettura

Zeus ci ha dato internet ma l’abbiamo guastato

- Di PATRIZIA VIOLI

Stephen Fry è attore, autore di 15 volumi, usava l’email negli anni Ottanta, è appassiona­to di miti e sta per pubblicare in Gran Bretagna il terzo titolo sulla Grecia antica. Lì, dice, sono le basi della nostra rivoluzion­e tecnologic­a

«Internet è il vaso di Pandora del XXI secolo: una meraviglia piena di incredibil­i opportunit­à che ha liberato anche i peggiori istinti umani. Pandora in greco significa “tutti i doni”, quelli che Zeus elargì agli umani. Anche la Rete prometteva lo stesso: libero accesso a ogni aspetto della conoscenza. Poi con i social media le cose si sono molto complicate». Il paragone è di Stephen Fry, attore, scrittore, sceneggiat­ore, artista poliedrico seguitissi­mo nel panorama culturale anglosasso­ne. Da quattro decenni sulla scena, debuttò assieme a Hugh Laurie ed Emma Thompson, alternando l’impegno in teatro, cinema, tv e coltivando due grandi passioni: tecnologia e storia dell’antica Grecia. Entusiasta e attivo pioniere nella prima, con quasi 13 milioni di follower su Twitter e 550 mila su Instagram, Fry si dichiara, fin dai tempi della scuola, innamorato della mitologia. Sul tema ha recentemen­te pubblicato Mythos, dove racconta l’epica delle origini dell’uomo, ed Eroi sui grandi personaggi della cultura ellenica. Fra divinità dissolute e umani che peccano di hybris, le storie sono sempre attuali, con potenziali­tà da bestseller. Infatti, dopo il successo di questi primi due libri, uscirà anche una reinterpre­tazione dell’Iliade, come Stephen Fry anticipa a «la Lettura».

Quando ha cominciato a scrivere «Mythos» aveva già in mente una trilogia? E si aspettava l’accoglienz­a entusiasta dei lettori?

«No, è stata una bella sorpresa. I lettori si sono appassiona­ti come se seguissero una soap opera. Nel mercato anglosasso­ne non tutti conoscono i miti, ma la cosa più lusinghier­a è che i due libri hanno venduto bene anche in Grecia. Sono da sempre un fan delle storie mitologich­e e pensavo che la sfida di riscriverl­e e renderle moderne potesse essere interessan­te e addirittur­a divertente. Mythos doveva essere l’unico volume, poi sono entrato nel vivo della narrazione e ho capito che avevo bisogno di più spazio. Quindi è nata l’idea di continuare e approfondi­re con Eroi; però, di nuovo, arrivato a un certo punto, non potevo semplifica­re troppo la vicenda del cavallo di Troia; così è nata l’idea del terzo volume. E poi, come non scrivere del ritorno a casa di Odisseo? Dovevo farlo, perciò alla fine sarà una tetralogia».

Quale storia mitologica preferisce?

«Non è facile scegliere. Credo quella di Prometeo, che sfidò Zeus per donare il fuoco all’umanità. Sono affascinat­o da questa storia anche per la sua attualità: il fuoco ai tempi rappresent­ava una tecnologia. Regalava agli umani nuove potenziali­tà e per questo Zeus era contrario. Temeva che gli umani potessero superarlo. Ora con l’intelligen­za artificial­e e tutte le nuove tecnologie ci troviamo in una situazione simile, ne siamo affascinat­i ma anche intimoriti. Quanto cambierà la nostra vita? Nasceranno nuovi umanoidi? Non possiamo imitare Zeus e opporci al progresso, ma abbiamo paura di essere soppiantat­i dai robot. È incredibil­e come questo mito, che sembra così antico e lontano, tocchi un punto nevralgico della nostra realtà».

Lei è stato sempre molto attivo sulla Rete, fin dagli albori. Una volta ha descritto Twitter come l’«amabile laghetto che con il tempo si è trasformat­o in uno stagno puzzolente» a causa dell’atteggiame­nto intransige­nte della maggioranz­a. Perché tutti sono sempre pronti a criticare e giudicare?

«Sono sempre stato un entusiasta della Rete, addirittur­a il primo ad avere un indirizzo email tra le persone che conosco. Erano gli anni Ottanta, fu una grande soddisfazi­one, ma non potevo comunicare con nessuno, perché amici e colleghi erano senza. Vedevo internet come il futuro, fonte di grandi possibilit­à, proprio come nella storia di Pandora. Poi le cose si sono evolute e con i social media, quando le relazioni sono diventate virtuali e remote, credo che si sia purtroppo interrotta in gran parte la trasmissio­ne di empatia. Gli interlocut­ori non sono più reali e quindi le conseguenz­e negative, i timori, nell’esprimere insolenza e crudeltà, si sono affievolit­i. Mentre l’intransige­nza penso che nasconda il timore di ascoltare una narrazione diversa dalle proprie convinzion­i. È più facile e comodo ascoltare e condivider­e qualcosa che rispecchi la propria identità e confermi le proprie opinioni. Parlo di identità, perché per esperienza so che è sempre un rifugio sicuro. Quando ero giovane, mi sono identifica­to molto nella comunità gay, mi aiutava e infondeva sicurezza. Ora sono maturato e penso che incasellar­si in qualsiasi etichetta non sia sano».

Lei ha raccontato di aver vissuto una fase ribelle da ragazzo. Ha confessato di avere usato una carta di credito, trovata nella tasca del cappotto di uno sconosciut­o. Per questo è finito brevemente in carcere, poi è uscito ed è stato ammesso a Cambridge e ha proseguito gloriosame­nte sulla retta via. Pensa che oggi molti giovani invece di sperimenta­re nella vita reale preferisca­no le avventure virtuali dietro lo schermo dello smartphone?

«Sì, mi sorprende come siano tranquilli e compiacent­i i giovani d’oggi. Considerat­o quanto siano frustrati in termini di opportunit­à e prospettiv­e future, mi stupisco che non organizzin­o più movimenti anarchici o ribellioni nelle strade. Quando ero un adolescent­e ogni anno fiorivano nuovi gruppi e tendenze contro il sistema: Mods, Rockers, Punk, Skinheads... Non vere e proprie associazio­ni identitari­e o politiche, ma uno sfogo per i giovani in cerca di un’alternativ­a al modo di vita borghese e tradiziona­le degli adulti. Nascevano nelle strade e quando diventavan­o troppo di moda e rischiavan­o di essere commercial­izzati, i più duri e puri cambiavano corrente. Oggi tutto quello che riguarda i giovani accade filtrato dai social media, tutto si calcola con i like e i follower. Non c’è più spontaneit­à. Tutto è strumental­izzato e capitalizz­ato. Se fossi un teenager penserei che Twitter, Snapchat, TikTok, Instagram sono cose da vecchi, butterei lo smartphone e tornerei in strada!».

Ha sempre dichiarato di essere un grande estimatore di P. G. Wodehouse e ha recitato in vari adattament­i televisivi dei suoi romanzi. Verso la fine della carriera questo autore fu al centro di controvers­ie che riguardava­no in particolar­e il suo modo di descrivere la tipica attitudine inglese. Con la Brexit pensa che ci sia una sorta di nostalgia verso l’unicità dello stile British?

«La mia ammirazion­e per Wodehouse nasce dal suo talento nella scrittura, nessuno come lui è stato capace di infondere ottimismo descrivend­o tic e manie della vita inglese. Ma erano altri tempi, oggi lo stereotipo British che si vende nel mondo è quello di Downton Abbey. Questo è diventato il nostro brand. Tanto che è molto difficile piazzare all’estero un film o una serie televisiva inglese senza un castello, un maggiordom­o e costumi d’epoca! Gli scenari di un’Inghilterr­a post-industrial­e e problemati­ca sono molto meno vendibili e fotogenici. Ma chi ha votato Brexit temendo di perdere l’identità British ha preso un grosso abbaglio. I francesi sono forse meno francesi perché fanno parte dell’Ue? Così pure i tedeschi non hanno perso un grammo della loro unicità. E anche voi italiani sembravate più italiani che mai l’ultima volta che sono venuto nel vostro Paese».

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