Corriere della Sera - La Lettura
Zeus ci ha dato internet ma l’abbiamo guastato
Stephen Fry è attore, autore di 15 volumi, usava l’email negli anni Ottanta, è appassionato di miti e sta per pubblicare in Gran Bretagna il terzo titolo sulla Grecia antica. Lì, dice, sono le basi della nostra rivoluzione tecnologica
«Internet è il vaso di Pandora del XXI secolo: una meraviglia piena di incredibili opportunità che ha liberato anche i peggiori istinti umani. Pandora in greco significa “tutti i doni”, quelli che Zeus elargì agli umani. Anche la Rete prometteva lo stesso: libero accesso a ogni aspetto della conoscenza. Poi con i social media le cose si sono molto complicate». Il paragone è di Stephen Fry, attore, scrittore, sceneggiatore, artista poliedrico seguitissimo nel panorama culturale anglosassone. Da quattro decenni sulla scena, debuttò assieme a Hugh Laurie ed Emma Thompson, alternando l’impegno in teatro, cinema, tv e coltivando due grandi passioni: tecnologia e storia dell’antica Grecia. Entusiasta e attivo pioniere nella prima, con quasi 13 milioni di follower su Twitter e 550 mila su Instagram, Fry si dichiara, fin dai tempi della scuola, innamorato della mitologia. Sul tema ha recentemente pubblicato Mythos, dove racconta l’epica delle origini dell’uomo, ed Eroi sui grandi personaggi della cultura ellenica. Fra divinità dissolute e umani che peccano di hybris, le storie sono sempre attuali, con potenzialità da bestseller. Infatti, dopo il successo di questi primi due libri, uscirà anche una reinterpretazione dell’Iliade, come Stephen Fry anticipa a «la Lettura».
Quando ha cominciato a scrivere «Mythos» aveva già in mente una trilogia? E si aspettava l’accoglienza entusiasta dei lettori?
«No, è stata una bella sorpresa. I lettori si sono appassionati come se seguissero una soap opera. Nel mercato anglosassone non tutti conoscono i miti, ma la cosa più lusinghiera è che i due libri hanno venduto bene anche in Grecia. Sono da sempre un fan delle storie mitologiche e pensavo che la sfida di riscriverle e renderle moderne potesse essere interessante e addirittura divertente. Mythos doveva essere l’unico volume, poi sono entrato nel vivo della narrazione e ho capito che avevo bisogno di più spazio. Quindi è nata l’idea di continuare e approfondire con Eroi; però, di nuovo, arrivato a un certo punto, non potevo semplificare troppo la vicenda del cavallo di Troia; così è nata l’idea del terzo volume. E poi, come non scrivere del ritorno a casa di Odisseo? Dovevo farlo, perciò alla fine sarà una tetralogia».
Quale storia mitologica preferisce?
«Non è facile scegliere. Credo quella di Prometeo, che sfidò Zeus per donare il fuoco all’umanità. Sono affascinato da questa storia anche per la sua attualità: il fuoco ai tempi rappresentava una tecnologia. Regalava agli umani nuove potenzialità e per questo Zeus era contrario. Temeva che gli umani potessero superarlo. Ora con l’intelligenza artificiale e tutte le nuove tecnologie ci troviamo in una situazione simile, ne siamo affascinati ma anche intimoriti. Quanto cambierà la nostra vita? Nasceranno nuovi umanoidi? Non possiamo imitare Zeus e opporci al progresso, ma abbiamo paura di essere soppiantati dai robot. È incredibile come questo mito, che sembra così antico e lontano, tocchi un punto nevralgico della nostra realtà».
Lei è stato sempre molto attivo sulla Rete, fin dagli albori. Una volta ha descritto Twitter come l’«amabile laghetto che con il tempo si è trasformato in uno stagno puzzolente» a causa dell’atteggiamento intransigente della maggioranza. Perché tutti sono sempre pronti a criticare e giudicare?
«Sono sempre stato un entusiasta della Rete, addirittura il primo ad avere un indirizzo email tra le persone che conosco. Erano gli anni Ottanta, fu una grande soddisfazione, ma non potevo comunicare con nessuno, perché amici e colleghi erano senza. Vedevo internet come il futuro, fonte di grandi possibilità, proprio come nella storia di Pandora. Poi le cose si sono evolute e con i social media, quando le relazioni sono diventate virtuali e remote, credo che si sia purtroppo interrotta in gran parte la trasmissione di empatia. Gli interlocutori non sono più reali e quindi le conseguenze negative, i timori, nell’esprimere insolenza e crudeltà, si sono affievoliti. Mentre l’intransigenza penso che nasconda il timore di ascoltare una narrazione diversa dalle proprie convinzioni. È più facile e comodo ascoltare e condividere qualcosa che rispecchi la propria identità e confermi le proprie opinioni. Parlo di identità, perché per esperienza so che è sempre un rifugio sicuro. Quando ero giovane, mi sono identificato molto nella comunità gay, mi aiutava e infondeva sicurezza. Ora sono maturato e penso che incasellarsi in qualsiasi etichetta non sia sano».
Lei ha raccontato di aver vissuto una fase ribelle da ragazzo. Ha confessato di avere usato una carta di credito, trovata nella tasca del cappotto di uno sconosciuto. Per questo è finito brevemente in carcere, poi è uscito ed è stato ammesso a Cambridge e ha proseguito gloriosamente sulla retta via. Pensa che oggi molti giovani invece di sperimentare nella vita reale preferiscano le avventure virtuali dietro lo schermo dello smartphone?
«Sì, mi sorprende come siano tranquilli e compiacenti i giovani d’oggi. Considerato quanto siano frustrati in termini di opportunità e prospettive future, mi stupisco che non organizzino più movimenti anarchici o ribellioni nelle strade. Quando ero un adolescente ogni anno fiorivano nuovi gruppi e tendenze contro il sistema: Mods, Rockers, Punk, Skinheads... Non vere e proprie associazioni identitarie o politiche, ma uno sfogo per i giovani in cerca di un’alternativa al modo di vita borghese e tradizionale degli adulti. Nascevano nelle strade e quando diventavano troppo di moda e rischiavano di essere commercializzati, i più duri e puri cambiavano corrente. Oggi tutto quello che riguarda i giovani accade filtrato dai social media, tutto si calcola con i like e i follower. Non c’è più spontaneità. Tutto è strumentalizzato e capitalizzato. Se fossi un teenager penserei che Twitter, Snapchat, TikTok, Instagram sono cose da vecchi, butterei lo smartphone e tornerei in strada!».
Ha sempre dichiarato di essere un grande estimatore di P. G. Wodehouse e ha recitato in vari adattamenti televisivi dei suoi romanzi. Verso la fine della carriera questo autore fu al centro di controversie che riguardavano in particolare il suo modo di descrivere la tipica attitudine inglese. Con la Brexit pensa che ci sia una sorta di nostalgia verso l’unicità dello stile British?
«La mia ammirazione per Wodehouse nasce dal suo talento nella scrittura, nessuno come lui è stato capace di infondere ottimismo descrivendo tic e manie della vita inglese. Ma erano altri tempi, oggi lo stereotipo British che si vende nel mondo è quello di Downton Abbey. Questo è diventato il nostro brand. Tanto che è molto difficile piazzare all’estero un film o una serie televisiva inglese senza un castello, un maggiordomo e costumi d’epoca! Gli scenari di un’Inghilterra post-industriale e problematica sono molto meno vendibili e fotogenici. Ma chi ha votato Brexit temendo di perdere l’identità British ha preso un grosso abbaglio. I francesi sono forse meno francesi perché fanno parte dell’Ue? Così pure i tedeschi non hanno perso un grammo della loro unicità. E anche voi italiani sembravate più italiani che mai l’ultima volta che sono venuto nel vostro Paese».