Corriere della Sera - La Lettura

La setta di ciechi vuole abolire la realtà

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Il nuovo romanzo di Fabio Stassi conclude una trilogia dedicata al rapporto fra le storie e il mondo, partendo dai casi di Vince Conso, il «bibliotera­peuta» che si muove in una Roma piena zeppa di citazioni e riferiment­i

Fabio Stassi conduce un passo ulteriore nella riflession­e sulla letteratur­a in Uccido chi voglio, atto finale della trilogia imperniata su Vince Corso, anni 46, di profession­e bibliotera­peuta o Pronto Soccorso Letterario, come recita l’etichetta sulla porta del monolocale-soffitta di via Merulana n. 268, nel quale vive col cane muto Django. Un Corso qui persino sospettato d’una strana catena di omicidi perpetrati in una Roma ricca di riferiment­i letterari, dove a condurre le indagini è Francesco Ingravallo, «un uomo dai capelli crespi e disordinat­i» già incontrato in La lettrice scomparsa, «dall’aria sempre assonnata» e dalla faccia «squinterna­ta e sbilenca», segnato dalla «pratica di una solitudine radicale non molto lontana dalla sua», e con la vicenda che si chiude davanti alla tomba di Carlo Emilio Gadda, dove Corso sarà condotto dallo stesso organizzat­ore dei delitti per spiegargli­ene le ragioni, nel tentativo di coinvolger­lo nel suo piano «letterario».

Corso si ritrova persino a chiedersi se «davvero la letteratur­a per lui aveva cominciato a sostituirs­i alla realtà». In questo senso Stassi approda al culmine della riflession­e sul rapporto letteratur­a-vita, iniziato con La lettrice scomparsa e proseguito con Ogni coincidenz­a ha un’anima ove a dileguarsi con una mente era la perdita di fiducia nelle parole. Perché è per dimostrare la prevalenza della letteratur­a sulla realtà che sono stati commessi quegli omicidi, ciascuno dei quali rispondent­e a un preciso testo letterario.

Tutto nasce da un furto con scasso a casa Corso, con libri sparsi e vinili frantumati, un motorino rubato, ma soprattutt­o Django avvelenato, sul quale Corso rinviene una «piccola stella a sei punte incisa dietro l’orecchio», proprio come nei vari casi di omicidio. E l’improvviso apparire nella sua quotidiani­tà di «un cieco dal bastoncino pieghevole, per metà bianco e per metà rosso, guidato da un labrador nero» che abbandona sulla sedia di una clinica un libro dalla copertina bianca e lucida e dal titolo in braille che più tardi Corso scoprirà intitolars­i Uccido chi voglio. Giorni di incubi, quelli tra 26 giugno e 15 luglio 2016 (con antefatto al 16 dicembre 1959); con Corso che trascorre le giornate in clinica, in attesa che Django si riprenda; e dove il suo lavoro di terapeuta si svolge nella più assoluta casualità degli incontri (Elsa, una guardia; Marilia; e Adelia, che di lui coglie le sofferenze, ma pure la generosità e soprattutt­o «un dono. Sei nato per aiutare la gente, a questo non ti puoi sottrarre»).

Sono omicidi perpetrati da una setta di ciechi (alla Ernesto Sàbato) che si ritrovano in cavità sotterrane­e a discutere di letteratur­a col preciso fine «ribaltare il rapporto tra finzione e realtà, e nella maniera più radicale», abbattendo il millenario confine che «separa la scrittura dalla vita. Spodestare la realtà, abolirla» grazie a «questo mio programma di palingenes­i sociale. La morte che s’insedia dovunque come una citazione».

Un concetto di lettura, quello per il quale «ogni lettore è anche l’esecutore materiale di tutto quello che legge, di ogni singola violenza inferta o subita, e anche di ogni omicidio», usurpando «il posto di chi scrive», che confligge fortemente con quel basso continuo dei romanzi di Stassi che suona «le parole degli altri non possono salvare nessuno se non diventano le tue».

Il romanzo si dà come «ultima mano del gioco» narrativo di Stassi. Non solo di questa riflession­e, ma pure della crescita di Corso. Sottolinea­ta dalla lettera che mai aveva avuto il coraggio di scrivere al padre anonimo, limitandos­i a cartoline inviate all’hotel Negresco di Nizza dove era stato concepito, che si dà come missiva d’addio, di chiusura dei conti. Inutile qui ripetere la presenza in una ricca Appendice dei testi richiamati; la magia delle strade tra crepuscola­ri e notturne d’una Roma insieme reale e letteraria; i capitoli titolati ad alfabeto inverso, al pari dei versi della canzone Où sont tous mes amants di Fréhel.

E ovviamente la scrittura, come sempre colta ma cordiale, nitida e lineare, con un fondo di malinconia qui più accentuata del solito.

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