Corriere della Sera - La Lettura
Il coccodrillo di parole mordicchia la poesia
Il cinese Yang Lian ha fatto dell’esilio la cifra della sua estetica e della sua ricerca. Tuttavia non si è lasciato soffocare dalle recriminazioni e propone un immaginario di simboli e rivelazioni, nel solco della tradizione occidentale
Da molto tempo Yang Lian è un poeta nella condizione che chiamiamo esilio. Dopo gli eventi di piazza Tienanmen nel giugno del 1989, decise infatti di non tornare più in patria. In quei giorni si trovava in Nuova Zelanda ma da allora ha vissuto sempre in Europa. Già da qualche anno le sue poesie ne avevano complicato i rapporti con le istituzioni governative della Repubblica popolare cinese. E pensando che era nato 34 anni prima, nel 1955, in Svizzera (il padre era un diplomatico), sembrerebbe quasi che la condizione di nomade fosse inscritta da sempre nel suo destino.
In realtà il lettore di Origine, un’antologia della sua opera poetica curata e tradotta da Tommaso Kemeny (Jaca Book; la scelta dei testi è stata fatta dall’autore stesso), se non avesse acquisito per una diversa via alcune informazioni biografiche fondamentali, di tutte queste vicissitudini non potrebbe certo sapere. Compaiono sì più volte Londra o Berlino (le due città in cui il poeta vive), ma non nel modo che si potrebbe a tutta prima pensare, come la cronistoria più o meno circostanziata di una vita e dei suoi accadimenti distintivi. No, di tutto ciò non si trova praticamente traccia. Eppure Yang Lian non fa che parlare di questo: l’origine (come dal titolo dell’antologia), le radici e lo sradicamento, la casa, il nido, gli antenati. Del resto, quando ancora viveva in patria, assieme ad alcuni compagni di strada si era mosso proprio alla ricerca delle cosiddette radici, vale a dire di un contatto diretto con la cultura e insieme con le forme poetiche dell’antica tradizione cinese (è proprio questa non conformità, questo mancato accasamento nel presente che dal punto di vista governativo doveva venire corretto).
Il fatto è che Yang Lian evita di alludere direttamente alle proprie vicende private non per qualche forma di dissimulazione strategica, di pudore o di reticenza. Piuttosto, l’esperienza personale risulta il trampolino di lancio, comunque imprescindibile, di un percorso conoscitivo e di una trasposizione metaforica che non si fermano ai tratti pur eclatanti e drammatici di una storia unica e particolare. «È un destino questo?», si chiede il poeta in un recentissimo componimento metapoetico anteposto all’antologia. E la risposta offerta da queste poesie potrebbe essere che l’esilio, lo sradicamento, la perdita, il nomadismo, non costituiscono solo un’ingiustizia subita da una singola persona (quasi per privilegio negativo) ma sono anche e soprattutto qualcosa che riguarda la natura stessa dell’uomo. Il punto di svolta di questa poesia, ch’è insieme di comprensione e creativo, sta insomma nella capacità del poeta, diciamo pure nella sua forza, di non accomodarsi nel ruolo della vittima, di non fermarsi a piangere il proprio destino facendo così del proprio nemico e della propria ferita, per quanto profonda e inamovibile, qualcosa di circoscritto e limitato.
In fondo sarebbe stata la strada più facile, più prevedibile: assolvere una volta per tutte se stesso in virtù di una condanna ingiusta. Dal cuore più dolente e insieme più vivo della propria vicenda personale, questo poeta non si è però fatto accecare, ma ha guardato invece alla condizione umana in quanto tale, in senso assoluto.
Esule a sua volta dalla Russia sovietica,
Josif Brodskij ha offerto a suo tempo argomenti non ricusabili sulla relazione tra il poeta e l’esilio, sui suoi rischi e sulle sue opportunità. Ed è difficile non pensarci leggendo le poesie di Origine. E per altro la vicenda biografica e creativa di Dante, il legame tra l’esilio e la Commedia, tanto più per un lettore italiano costituisce una testimonianza clamorosa della reciprocità e insieme dello scarto tra le sollecitazioni storico-esistenziali e il determinarsi della visione poetica.
In una lirica come Il Tempo, lo Spazio (l’antologia è divisa in quattro sezioni, di cui la prima e più cospicua s’intitola appunto Liriche), Yang Lian mostra d’avere compreso benissimo che non si sarebbe fatto risucchiare in un buco nero di rancore, che la perdita, quella perdita determinata, non avrebbe comunque rappresentato l’inizio e la fine della sua vita, e tanto meno della sua poesia. «Una vecchia casa familiare dove non potrò tornare?», si domanda pensando ai cari più amati, ai giorni e ai luoghi di un tempo. E la risposta è che «non puoi tornare a quelle strane giornate passate// il cuore della musica ha cessato di battere quietamente/ la casa si cela nel dimenticarsi di sé stessa/ alberi avvolti nel verde o nel sonno». Il poeta sta dicendo che non potrà tornare per la stessa via da cui se ne era andato. Di più: che non potrà tornare là dove il «Tempo» non concede mai di tornare, in un passato irrecuperabile, in un’origine edenica che in fondo non è mai stata.
La sua poesia, non a caso, si fonda su un immaginario estremamente fertile e reattivo, e combattivo anche; e quasi per nulla sull’elegia, sul rammarico, sul compianto. Non è stata questa la strada che si è scelto. E infatti: «dissolvono tutte le strade / questa diventa l’unica via che porta a casa». Forse il questa allude alla capacità di comprensione della poesia.
La traduzione italiana, che per altro risulta piuttosto efficace (oltre che poeta, Kemeny è un anglista e un traduttore di qualità), non è tratta dall’originale cinese ma da una precedente versione in inglese. Certo questo può destare qualche perplessità, perché a questo punto al salto dai caratteri cinesi alla lingua inglese, che di per sé è già una scommessa, si somma quello dall’inglese all’italiano. A difesa dell’operazione si può dire però che il grosso dei testi inglesi di riferimento è stato tradotto (in particolare da Brian Holton) in collaborazione col poeta stesso. Del resto, come Kemeny giustamente ricorda, Yang Lian si è nutrito in profondità della cultura poetica occidentale, e soprattutto anglosassone. Pound, Eliot, Williams Carlos Williams, ma anche Baudelaire, il surrealismo e più indietro i poeti romantici. La sfrenatezza e tante volte l’aggressività del suo immaginario possono ricordare proprio la poesia romantica, magari con una tendenza al gotico. Anche se poi l’ordinamento del testo originario possiede, quasi a compenso, un rigore spaziale e architettonico che le traduzioni, in inglese o in italiano che sia, inevitabilmente stentano a riprodurre.
Se la sua stanza o un riparo vengono meno, il poeta vede un cane scavare nel terreno in cerca di ossa, degli uccelli allontanarsi in un cielo semibuio o fantasmi assieparsi attorno al proprio letto. La realtà si trova in un continuo stato d’allarme: le sostanze si mischiano e trasformano, veglia e sogno, ciò che è morto e ciò che vive si confondono tra loro. Il mondo appare come una foresta di simboli, annunci, rivelazioni. Ma l’impressione è che questo immaginario poetico sia per lui molto meno fantastico e disinvolto di quanto può forse sembrare. Così scrive infatti: «il venire mordicchiato dal coccodrillo ha strutturato l’incipit di questa poesia/ in sogni terrificantemente reali».