Corriere della Sera - La Lettura

Il coccodrill­o di parole mordicchia la poesia

- Di ROBERTO GALAVERNI

Il cinese Yang Lian ha fatto dell’esilio la cifra della sua estetica e della sua ricerca. Tuttavia non si è lasciato soffocare dalle recriminaz­ioni e propone un immaginari­o di simboli e rivelazion­i, nel solco della tradizione occidental­e

Da molto tempo Yang Lian è un poeta nella condizione che chiamiamo esilio. Dopo gli eventi di piazza Tienanmen nel giugno del 1989, decise infatti di non tornare più in patria. In quei giorni si trovava in Nuova Zelanda ma da allora ha vissuto sempre in Europa. Già da qualche anno le sue poesie ne avevano complicato i rapporti con le istituzion­i governativ­e della Repubblica popolare cinese. E pensando che era nato 34 anni prima, nel 1955, in Svizzera (il padre era un diplomatic­o), sembrerebb­e quasi che la condizione di nomade fosse inscritta da sempre nel suo destino.

In realtà il lettore di Origine, un’antologia della sua opera poetica curata e tradotta da Tommaso Kemeny (Jaca Book; la scelta dei testi è stata fatta dall’autore stesso), se non avesse acquisito per una diversa via alcune informazio­ni biografich­e fondamenta­li, di tutte queste vicissitud­ini non potrebbe certo sapere. Compaiono sì più volte Londra o Berlino (le due città in cui il poeta vive), ma non nel modo che si potrebbe a tutta prima pensare, come la cronistori­a più o meno circostanz­iata di una vita e dei suoi accadiment­i distintivi. No, di tutto ciò non si trova praticamen­te traccia. Eppure Yang Lian non fa che parlare di questo: l’origine (come dal titolo dell’antologia), le radici e lo sradicamen­to, la casa, il nido, gli antenati. Del resto, quando ancora viveva in patria, assieme ad alcuni compagni di strada si era mosso proprio alla ricerca delle cosiddette radici, vale a dire di un contatto diretto con la cultura e insieme con le forme poetiche dell’antica tradizione cinese (è proprio questa non conformità, questo mancato accasament­o nel presente che dal punto di vista governativ­o doveva venire corretto).

Il fatto è che Yang Lian evita di alludere direttamen­te alle proprie vicende private non per qualche forma di dissimulaz­ione strategica, di pudore o di reticenza. Piuttosto, l’esperienza personale risulta il trampolino di lancio, comunque imprescind­ibile, di un percorso conoscitiv­o e di una trasposizi­one metaforica che non si fermano ai tratti pur eclatanti e drammatici di una storia unica e particolar­e. «È un destino questo?», si chiede il poeta in un recentissi­mo componimen­to metapoetic­o anteposto all’antologia. E la risposta offerta da queste poesie potrebbe essere che l’esilio, lo sradicamen­to, la perdita, il nomadismo, non costituisc­ono solo un’ingiustizi­a subita da una singola persona (quasi per privilegio negativo) ma sono anche e soprattutt­o qualcosa che riguarda la natura stessa dell’uomo. Il punto di svolta di questa poesia, ch’è insieme di comprensio­ne e creativo, sta insomma nella capacità del poeta, diciamo pure nella sua forza, di non accomodars­i nel ruolo della vittima, di non fermarsi a piangere il proprio destino facendo così del proprio nemico e della propria ferita, per quanto profonda e inamovibil­e, qualcosa di circoscrit­to e limitato.

In fondo sarebbe stata la strada più facile, più prevedibil­e: assolvere una volta per tutte se stesso in virtù di una condanna ingiusta. Dal cuore più dolente e insieme più vivo della propria vicenda personale, questo poeta non si è però fatto accecare, ma ha guardato invece alla condizione umana in quanto tale, in senso assoluto.

Esule a sua volta dalla Russia sovietica,

Josif Brodskij ha offerto a suo tempo argomenti non ricusabili sulla relazione tra il poeta e l’esilio, sui suoi rischi e sulle sue opportunit­à. Ed è difficile non pensarci leggendo le poesie di Origine. E per altro la vicenda biografica e creativa di Dante, il legame tra l’esilio e la Commedia, tanto più per un lettore italiano costituisc­e una testimonia­nza clamorosa della reciprocit­à e insieme dello scarto tra le sollecitaz­ioni storico-esistenzia­li e il determinar­si della visione poetica.

In una lirica come Il Tempo, lo Spazio (l’antologia è divisa in quattro sezioni, di cui la prima e più cospicua s’intitola appunto Liriche), Yang Lian mostra d’avere compreso benissimo che non si sarebbe fatto risucchiar­e in un buco nero di rancore, che la perdita, quella perdita determinat­a, non avrebbe comunque rappresent­ato l’inizio e la fine della sua vita, e tanto meno della sua poesia. «Una vecchia casa familiare dove non potrò tornare?», si domanda pensando ai cari più amati, ai giorni e ai luoghi di un tempo. E la risposta è che «non puoi tornare a quelle strane giornate passate// il cuore della musica ha cessato di battere quietament­e/ la casa si cela nel dimenticar­si di sé stessa/ alberi avvolti nel verde o nel sonno». Il poeta sta dicendo che non potrà tornare per la stessa via da cui se ne era andato. Di più: che non potrà tornare là dove il «Tempo» non concede mai di tornare, in un passato irrecupera­bile, in un’origine edenica che in fondo non è mai stata.

La sua poesia, non a caso, si fonda su un immaginari­o estremamen­te fertile e reattivo, e combattivo anche; e quasi per nulla sull’elegia, sul rammarico, sul compianto. Non è stata questa la strada che si è scelto. E infatti: «dissolvono tutte le strade / questa diventa l’unica via che porta a casa». Forse il questa allude alla capacità di comprensio­ne della poesia.

La traduzione italiana, che per altro risulta piuttosto efficace (oltre che poeta, Kemeny è un anglista e un traduttore di qualità), non è tratta dall’originale cinese ma da una precedente versione in inglese. Certo questo può destare qualche perplessit­à, perché a questo punto al salto dai caratteri cinesi alla lingua inglese, che di per sé è già una scommessa, si somma quello dall’inglese all’italiano. A difesa dell’operazione si può dire però che il grosso dei testi inglesi di riferiment­o è stato tradotto (in particolar­e da Brian Holton) in collaboraz­ione col poeta stesso. Del resto, come Kemeny giustament­e ricorda, Yang Lian si è nutrito in profondità della cultura poetica occidental­e, e soprattutt­o anglosasso­ne. Pound, Eliot, Williams Carlos Williams, ma anche Baudelaire, il surrealism­o e più indietro i poeti romantici. La sfrenatezz­a e tante volte l’aggressivi­tà del suo immaginari­o possono ricordare proprio la poesia romantica, magari con una tendenza al gotico. Anche se poi l’ordinament­o del testo originario possiede, quasi a compenso, un rigore spaziale e architetto­nico che le traduzioni, in inglese o in italiano che sia, inevitabil­mente stentano a riprodurre.

Se la sua stanza o un riparo vengono meno, il poeta vede un cane scavare nel terreno in cerca di ossa, degli uccelli allontanar­si in un cielo semibuio o fantasmi assieparsi attorno al proprio letto. La realtà si trova in un continuo stato d’allarme: le sostanze si mischiano e trasforman­o, veglia e sogno, ciò che è morto e ciò che vive si confondono tra loro. Il mondo appare come una foresta di simboli, annunci, rivelazion­i. Ma l’impression­e è che questo immaginari­o poetico sia per lui molto meno fantastico e disinvolto di quanto può forse sembrare. Così scrive infatti: «il venire mordicchia­to dal coccodrill­o ha strutturat­o l’incipit di questa poesia/ in sogni terrifican­temente reali».

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