Corriere della Sera - La Lettura
Occorre essere sinceri anche inventando storie
è il regista di «Volevo nascondermi», la pellicola sul pittore Ligabue che alla Berlinale ha fatto vincere l’Orso d’argento al protagonista
Elio Germano. Ed anche il regista di documentari che con le pellicole di finzione condividono la stessa necessità: ascoltare le persone, scoprire i luoghi, essere umili. Come insegnerà alla masterclass del festival Visioni dal Mondo
«Entr a i n gi oco s ubito. Fin dal primo stadio della realizzazione di un film. Consiste nel cercare di capire che cosa pensi di comunicare al mondo o quello che vuoi scoprire e conoscere del mondo». Giorgio Diritti riflette su cosa sia, per un regista, il «coraggio della sincerità». Sarà questo il tema della masterclass di cui sarà protagonista domenica 20 settembre per la 6ª edizione di Visioni dal Mondo, festival internazionale del documentario che (da Milano) si svolgerà interamente online dal 17 al 21 settembre.
Il rapporto tra cinema e realtà sarà affrontato da un regista, Giorgio Diritti, che attorno all’incontro con il reale ha costruito tutto il suo cinema. Non solo con i documentari ( Con i miei occhi, 2002; Piàzzati, 2008...) ma soprattutto con i film di finzione: Il vento fa il suo giro (2005), ambientato nelle valli occitane; L’uomo che verrà (2009) sulla strage di Marzabotto; Un giorno devi andare (2013) che conduce in Amazzonia tra le favelas brasiliane. E Volevo nascondermi, tornato nelle sale il 19 agosto dopo che a marzo era stato bloccato dalla pandemia: la storia, o meglio la favola, del pittore e scultore Antonio Ligabue (1899-1965). «Il coraggio della sincerità — racconta a “la Lettura” — sta nell’approccio, nella voglia di conoscere altri luoghi, altre persone, creare uno scambio. La sincerità è fondamentale, se si indossa una maschera l’incontro non è più lo stesso, tutto si trasforma in formalismo, in formalità o in rappresentazione, come ci racconta il teatro».
Come si declina questo nei suoi film?
«Nel mio cinema cerco di mantenere una dimensione di rispetto delle cose, dei sentimenti e delle situazioni che incontro. Dei luoghi. Il rapporto con i luoghi è fondamentale. Trasmettere, in un film ambientato in un’altra epoca, una sensazione realistica è importante per creare un’empatia anche emotiva».
Questo richiede uno studio approfondito di luoghi e personaggi. Come in «Volevo nascondermi», in cui ricostruisce nei dettagli non solo la storia di Antonio Ligabue, la sua «fisicità sgraziata, una mente velata da una moderata follia e un talento luminoso che a lungo rimane nascosto», ma i luoghi in cui ha vissuto: la Svizzera dove ha trascorso l’infanzia e gli anni a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia.
«Esatto, vuol dire calarsi nel territorio, avere voglia di intervistare persone che, in questo caso, hanno conosciuto Ligabue. Cercare documenti. Scoprire che frequentava la biblioteca, farsi tirare fuori dai bibliotecari i libri in cui studiava l’anatomia o le forme degli animali per i suoi quadri. Oppure andare nelle osterie e nelle case di riposo per parlare con gli anziani che lo hanno conosciuto e ricordano come camminava, come sbatteva il naso contro il porticato della piazza del Paese, quanto urlava e dove. Che mangiava la frittata con dieci uova. Elementi che non sono stati inseriti nel film, ma che danno l’idea dell’insieme di materiali raccolti da cui poi devi estrarre quello che è significativo per il racconto. Quel qualcosa che ha valore dal punto di vista emotivo rispetto alla storia che vuoi fare emergere. Magari alcuni aneddoti non serviranno, mentre quelli che riescono a trasferire la lotta di Toni (Ligabue, ndr) per un’identità e un riconoscimento diventano prioritari».
Lo stesso vale per il lavoro sulla lingua? Nei suoi film ogni personaggio parla la sua, o il suo dialetto.
«Sono molto attento a questo elemento, perché è nel rapporto tra lingue differenti che si gioca la comunicazione o la non comunicazione. Guardiamo proprio Ligabue: trascorre l’infanzia in Svizzera e poi, dopo l’espulsione (per aver aggredito la madre adottiva, ndr), arriva a Gualtieri, la città del patrigno, tale Laccabue, che lo aveva riconosciuto. Arriva come oggi potrebbe arrivare un migrante da un villaggio dell’Africa, o da altri luoghi, che conosce solo una lingua — il tedesco della Svizzera per Ligabue — che non gli permette di comunicare, e viene guardato con sospetto. L’uso di lingue diverse aiuta gli attori a entrare in una relazione più autentica, a capire chi è l’altro e come si sente. Se tutti parlano in italiano, tutto diviene mediato, letterario (cioè didascalico) e si annulla la reazione emotiva».
È ciò che avviene ne «Il vento fa il suo giro», dove lo scontro tra lo straniero, il francese, che si trasferisce in un paesino delle valli occitane, e gli abitanti è anche linguistico. O in «L’uomo che verrà», tra il tedesco e il dialetto del luogo? E poi nel lavoro fatto da Elio Germano, romano, nell’interpretazione di Antonio Ligabue che gli ha portato l’Orso d’argento alla Berlinale, sul tedesco-svizzero e il dialetto reggiano?
«Elio ha avuto il sostegno di due dialogue coach: una signora svizzero-tedesca e una signora di Gualtieri. Doveva avere a