Corriere della Sera - La Lettura

Un colpo di frusta che tocca il cuore

- Di FRANCO CORDELLI

Per pura disperazio­ne, nella prospettiv­a di trovarmi ancora una volta di fronte ad Antigone, ho ripreso in mano Le Antigoni di George Steiner, un libro di trent’anni fa (la traduzione italiana segue di sei l’originale). Aiuterà, mi dicevo, a trovare un’idea nuova che non sia quella per me ormai chiara: non esservi una ragione di Antigone e una colpa di Creonte. Allora, apro il libro e trovo una frase di Charles Maurras, scrittore agnostico e nazionalis­ta, che contraddic­e ciò che comunement­e si pensa, ma anche la mia idea: chi si ribella alla legge civile e all’ordine non è Antigone, è Creonte: «Creonte ha contro di sé gli dei della religione, le leggi fondamenta­li della Polis».

Ma la vera sorpresa viene dallo spettacolo di Massimilia­no Civica (sotto una scena, foto Duccio di Burberi) e non tanto dalle note di regia (un’analisi critica della tragedia di Sofocle), note che riflettono sul doppio seppellime­nto di Polinice, uno oscuro, misterioso, e uno evidente, luminoso. Il primo, dice Civica, è di Ismene, il secondo è di Antigone. Lei rimuove ogni possibile coinvolgim­ento della sorella perché vuole salvarla (il suo unico amore nasce dal legame di sangue, è per la famiglia), ma anche perché vuole tutta per sé la luce.

Dicevo, però, che la sorpresa non viene tanto da questa ipotesi o, nonostante in alcuni costumi l’ambientazi­one nel tempo della caduta del fascismo, dal rifiuto di qualsivogl­ia attualizza­zione («per Sofocle, pio seguace della religione apollinea della misura e dei limiti dell’uomo, avere, come Antigone e Creonte, un carattere che porta alla superbia, è un problema di rilevanza politica: è il carattere, la natura eccessiva dell’uomo, la questione politica più rilevante»). La sorpresa viene dalla regia in sé, dal movimento degli attori, dai loro brevi/lunghi percorsi nello spazio scenico, nel loro rivolgersi l’uno all’altro. Rispetto al tradiziona­le, di Civica, rifiuto di ogni pathos, ecco uno spettacolo che potrebbe essere d’esempio a un regista melodramma­tico e sguaiato come Davide Livermore. L’Antigone di Civica è una sferzata d’energia: come gli interpreti non si limitino a restare seduti ma si alzino e camminino, come essi si guardano negli occhi, come incrinano le voci, come escano o rientrino nell’ombra. Ogni breve scena è un colpo di frusta, che tocca il cuore dello spettatore. Dall’immobilità alla mobilità, da quella panca nel buio al giro intorno al cadavere di Polinice caduto nello scontro con il fratello Eteocle (anch’egli caduto ma seppellito), al panchetto su cui siede il Corifeo, dalla laconicità, o chiarezza o pura ragione al sentimento che produce ogni incrinatur­a del gesto e della voce nel glaciale sentimento tragico degli attori. Su tutti Marcello Sambati, il Corifeo: le sue mani in alto, verso il cielo o sul petto, davanti al cuore; e poi un potente Oscar De Summa, una dolce Monica Demuru, Francesco Rotelli e Monica Piseddu, forse la meno convincent­e nella sua flebilità. Lo spettacolo, prodotto dal Metastasio di Prato, riprenderà la tournée all’inizio, per il teatro, di una ancora incerta stagione.

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