Corriere della Sera - La Lettura

Io nonho paura

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Possiamo avere timore degli altri, ma anche di noi stessi; possiamo essere preoccupat­i del Covid, perché mette in pericolo il nostro presente e il nostro futuro, ma anche dei mutamenti climatici e degli choc ambientali, perché mettono a repentagli­o il futuro dei nostri figli; possiamo essere spaventati dai rischi dell’insuccesso (è naturale), ma anche dalle ricadute del successo (è un po’ meno naturale). Alle conseguenz­e delle paure Romaeuropa Festival, che si inaugura tra pochi giorni nella capitale, dedica cinque

lezioni di cinque scrittori italiani. «La Lettura» li ha incontrati

Quello della paura è il più vasto dei domini, scrive Saul Bellow. Guida le emozioni, regola la vita, orienta il senso estetico. Può essere dolore e, a volte, sottile piacere. Ha governato individui e nazioni in questo 2020 iniziato con una delle parole che ha percorso i secoli — pandemia — e che credevamo dimenticat­a. «La Lettura» ha messo a confronto le paure di cinque scrittori — Edoardo Albinati, Melania Mazzucco, Michela Murgia, Alessandro Piperno, Sandro Veronesi — che Francesco Siciliano, insieme con Francesca D’Aloja, ha convocato per una serie di lectures dal 21 al 26 settembre al Romaeuropa Festival. Parlare delle paure significa parlare di un’idea di paura. Qual è la vostra?

ALESSANDRO PIPERNO — Io mi rifaccio alla citazione di Hobbes che fa da esergo a Il piacere del testo di Roland Barthes: «La sola passione della mia vita è stata la paura». Affermazio­ne di sconvolgen­te verità che penso racconti molto bene la condizione umana. Non ho la capacità di parlare a nome dell’umanità, ma credo che sia uno dei sentimenti che conosco meglio. Io darei alla paura un’accezione larga sottraendo­la al dato meramente horror. La paura ha dominato la mia vita da sempre: il primo giorno di scuola, il primo appuntamen­to, una partita di calcio, la scrittura. Penso che sia un sentimento minatorio, mortuario, difficilme­nte esorcizzab­ile.

EDOARDO ALBINATI — A me interessa quello che c’è di positivo, di vitale, nel provare paura, come meccanismo che ci tiene lontano dai pericoli, che può salvarci. Gli allarmi non sono sempre falsi, non voglio addentrarm­i in meccanismi biologici che non conosco di prima mano, ma vedo la paura come un sistema di salvaguard­ia di sé stessi e degli altri. Mi spaventano di più i pericoli per le persone che mi stanno vicino o anche non vicino. Vedere una persona sul cornicione, per dire, mi fa quasi più impression­e che starci. E poi ci sono cose di carattere personale, minime, che mi spaventano. Perdere la valigia a Fiumicino è qualcosa che paradossal­mente mi spaventa di più che perdere la vita. Sono stato per mesi in Afghanista­n a lavorare e non ho mai avuto paura, mentre, per esempio, ho paura che mi fermino i carabinier­i. Ho paura dell’autorità legale, ma questa forse è una mia stortura. Mi viene in mente un proverbio cileno molto subdolo, molto cattivo: ai miei amici tutto, ai miei nemici la legge. È la paura di essere sottoposti a giusti rigori più che all’arbitrio. È una forza, un metodo, qualcosa che si può impiegare. Come diceva Machiavell­i è più facile incutere paura che suscitare amore. Si governa anche attraverso di essa.

SANDRO VERONESI — Qualche giorno fa, dopo una presentazi­one, una lettrice mi ha chiesto perché ho questa ossessione della morte attraverso l’acqua. Ci ho pensato e in effetti c’è in Caos calmo e nel Colibrì. A me non è successo niente, però in effetti quando avevo sette-otto anni ho visto una ragazza annegata: era stata tirata sulla spiaggia, piena di sabbia. Evidenteme­nte in tutti questi anni ha fatto di me un portatore asintomati­co, oggi si direbbe, di questa paura. Io non temo l’acqua, il mare; anzi: mi attira molto, è un elemento in cui mi sento a mio agio. È vero che poi è venuto fuori nei romanzi, però in realtà è venuta fuori la morte. Ma associare l’idea della morte a quella della paura a volte è un po’ ardito. Per esempio nel caso di Irene Carrera, nel Colibrì, la morte è anche un sollievo, una liberazion­e. A volte ti fa più paura alzarti l’indomani mattina che morire stanotte. Comunque questo è un esempio per dire che ci sono paure asintomati­che che possono facilmente trasformar­si in ispirazion­e artistica. Anche per me la paura è protettiva: è la paura di fare del male a chi amo. Quella più concreta, con cui ho sempre convissuto, con cinque figli in macchina, era di essere uno di quelli che si dimentican­o il bambino sul seggiolino. Quando succede a qualcuno, anziché dire ma come è possibile, me lo sento fratello. Oppure ho paure più articolate: tipo mi innamoro di un’altra persona e tutti soffrono per colpa mia. Sono le paure che mi hanno sempre protetto, mi hanno aiutato a comportarm­i bene, a fermarmi alla stazione di servizio se ho sonno.

MICHELA MURGIA — Per me paura significa dover subire, non poter decidere, incidere, controllar­e. E questo si applica soprattutt­o alle persone. Vivo sempre una sensazione di misantropi­a, cerco di evitare le entità caotiche umane. La mia cerchia di amici è quella che, in termini informatic­i, si definisce proprio la bolla: persone dalle caratteris­tiche talmente simili alle mie che anche quando fanno cose che non ho previsto so comunque dove andranno a parare. Questo è il mio lido di sicurezza. Perciò detesto le sorprese. Poi quando arriva qualcuno a scompagina­re questa certezza, la maggior parte delle volte è bellissimo.

MELANIA MAZZUCCO — A me interessa il tema della transitori­età della paura. L’inventario delle mie paure in realtà è la cronologia di una vita collocata in un tempo storico preciso. La maggior parte è legata a me naturalmen­te, ma una parte è legata al mio tempo. L’epidemia di Aids è qualcosa che colpì la mia generazion­e, perché arrivò in un momento della nostra vita in cui eravamo più esposti. È una paura storica, legata a una cronologia che non è solo la mia, ma di tutte le persone che allora avevano vent’anni. Così come le malattie, anche le paure

sono mortali, tramontano. Se confronto l’inventario delle mie paure con quelle, che so, di mia madre, nata negli anni Trenta, cresciuta nella pedagogia della paura, del cattolices­imo e poi della dittatura, è ovvio che siano diverse. Quindi le paure cambiano nel tempo?

MELANIA MAZZUCCO — Da bambina avevo due paure gigantesch­e. Una di essere malata, segnata. Una paura legata anche a diagnosi infauste e a un’elaborazio­ne fasulla di cose ascoltate male. Questa idea mi ha accompagna­to per molto tempo, sono rimasta convinta a lungo che non avrei superato i vent’anni. L’altra, grandissim­a, di cui mi sono sbarazzata soltanto quando ho cominciato a essere me stessa, è stata di non essere quello che gli altri pensavano che fossi. La paura di non essere all’altezza delle aspettativ­e o di non conformarm­i ai sogni degli altri, di essere la delusione della vita altrui. Credo che questo sia tipico di molti figli. Poi ci sono state le paure che io chiamo giovanili: la paura della malattia sociale, della follia — un tema che ha attraversa­to un po’ tutta la mia famiglia —, l’attrazione irresistib­ile verso la tenebra, confermata dalle letture di Cechov, Maupassant, Nietzsche... Un lungo periodo che si è concluso con la paura del sole, della luce; con l’ottenebram­ento, per citare Hölderlin. Qui mi avvicino probabilme­nte alle paure intellettu­ali, che sono più subdole. La paura della parola è qualcosa che sento tuttora. Vengo colpita dalla profezia dell’homeless che delira sul marciapied­e, mi fa paura la maledizion­e scagliata dalla strada. A Roma se ne sentono decine, terrifiche come le voci dei profeti. Lunghe litanie di maledizion­i che ho anche annotato. E poi la paura della mia stessa parola perché, a volte, i romanzi si inverano: scrivi cose che al momento non sai che ti appartengo­no e te ne rendi conto solo dopo. È come se venissero da un altrove dentro di te.

MICHELA MURGIA — Le mie paure sono cambiate quando sono arrivati i miei figli. Io sono una persona abbastanza sprezzante del pericolo, nel senso che rispetto a me non temo molte cose, ma l’idea che i miei figli possano essere esposti a qualcosa fuori dalla mia portata mi spaventa. È la fiducia negli altri che ti salva: pensare che i tuoi figli non siano meno capaci di te di proteggers­i.

ALESSANDRO PIPERNO — Se devo pensare alla paura più antica è questa: essere infangato da un’accusa non vera, finire in galera, portarmi addosso la vergogna. Questa è la paura delle paure: la vergogna sociale, importunar­e il prossimo. La ragione per cui io sono sempre stato molto fedele — al mio editore, al mio giornale, alla mia compagna, ai miei genitori — è proprio perché una volta che trovo una stabilità ho difficoltà a separarmen­e, a far accettare a persone nuove le mie ubbie. Una paura che non ho e che credevo che avrei avuto, però forse è troppo presto per dirlo, è invecchiar­e. Ho la sensazione che invecchiar­e mi stia dando molto, sono più bello di quando avevo vent’anni (ride, ndr), più a mio agio. Sono più libero, dico quello che voglio. È come se adesso che sono arrivato a cinquant’anni, 48 per la precisione, avessi acquisito la libertà di esprimermi. Non me ne frega più molto del giudizio altrui, non liscio il pelo a nessuno, vado per la mia strada. Tutto questo è una grande conquista. Da qualche anno, tra alti e bassi, tra successi e insuccessi, ho raggiunto una specie di pace dei sensi. Scrivo con grande abnegazion­e, con grande furia e me ne fotto. Anche se non è bello dirlo perché sembra un po’ fascistoid­e.

SANDRO VERONESI — Come è andata che io non mi sono mai dedicato alle droghe, pur essendo negli anni Settanta un adolescent­e curioso che ascoltava la musica rock, che frequentav­a quel tipo di persone? Io avevo paura: di quello che avrebbero detto i miei genitori, del dolore che gli avrei inflitto se mi fossi comportato come alcuni miei amici che poi infatti sono morti. Forse nel tempo sono cambiati gli scenari ma ho sempre avuto paura di essere io il male. Non di essere assassinat­o, ma di ritrovarmi ad essere l’assassino.

EDOARDO ALBINATI — Non ho paura dell’improvvisa­zione, anzi mi piace improvvisa­re come un jazzista. Immaginiam­o una letteratur­a o un cinema deprivati di questo sentimento: i mostri sono il sale dei libri, dei film. Non rinuncerei alla paura nel nome di questa serenità interiore che io non provo e non trovo nemmeno augurabile. Anche se c’è in giro una corsa a pratiche che hanno una finalità un po’ anestetica.

La grande paura di questi mesi è stata quella dell’epidemia, che ha significat­o anche isolamento e limitazion­e delle libertà. Come l’avete vissuta?

SANDRO VERONESI — La paura è un sentimento molto personale, intimo, che si accende quando entrano nel tuo bagno con la parrucca della mamma mentre fai la doccia. Se vanno da un altro, mi spiace tanto, ma non è la stessa cosa. Durante i mesi della pandemia, dei mille morti al giorno, non avevo paura perché nessuna persona a me cara o che conoscevo, tra Roma e Prato, luoghi su cui gravito, aveva preso il virus. Ho uno zio anziano a Milano che chiamavo spesso e che mi rassicurav­a: teniamo duro, non esco di casa, nel condominio ne sono già morti tre... Adesso, paradossal­mente, con questi casi di Covid da ritorno dalle vacanze conosco parecchia gente che si è ammalata. Sto girando l’Italia e una certa paura di incontrare una persona asintomati­ca che

Guida le emozioni, regola la vita, orienta il senso estetico: quello della paura — diceva Saul Bellow — è il più vasto dei domini. Tutti ci confrontia­mo con la paura (le paure): talvolta si vince, spesso si perde. In queste pagine lo fanno Edoardo Albinati, Melania Mazzucco, Michela Murgia, Alessandro Piperno, Sandro Veronesi. Si parla di sentimenti, anche molto intimi, e di politica; di salute (pubblica e privata) e di natura (quella umana e quella che l’umanità contribuis­ce a distrugger­e); di letture, naturalmen­te (per esempio King e Simenon), e di scritture

ha fatto le vacanze in Sardegna e viene a farsi firmare da me Il colibrì, un po’ ce l’ho.

MICHELA MURGIA — Per me l’isolamento non è stato un problema, è quasi uno stile di vita. Quello che mi ha spaventato è la crisi democratic­a a cui abbiamo assistito: abbiamo vissuto la sospension­e di libertà che consideria­mo scontate, compreso il diritto alla cura perché, a un certo punto, tutte le persone che non avevano il Covid hanno dovuto rinunciare o rimandare le cure. Questa facilità con cui — in nome di un’emergenza — abbiamo ceduto, per certi versi mi ha spaventata. Chiariamo: non avevo paura del governo, mi rendo conto che stiamo vivendo un’emergenza perché 35 mila morti sono un’emergenza. Però mi sono chiesta: se ci fosse stato un primo ministro più autoritari­o, qualcuno che crede meno nelle regole democratic­he, avremmo ceduto le nostre libertà con la stessa facilità? La risposta è stata sì.

ALESSANDRO PIPERNO — Sono un ipocondria­co di antica data ma ho avuto una gestione della questione stranament­e molto laica, senza particolar­e angoscia. Forse perché ho la sensazione che la mia paura venga da più lontano. Nel momento in cui mi trovo ad affrontare le cose mi scopro sempre più audace di quanto penso. Per esempio è più difficile pensare di scrivere un libro o un articolo che scriverlo o pubblicarl­o. Ho il privilegio di fare due cose che, dal punto di vista del lavoro, sono state risparmiat­e dal Covid — scrivere e insegnare, cioè essere un impiegato dello Stato — quindi non ho avuto paure personali. Invece sono stato preso da un enorme senso di angoscia, che sconfinava nella solidariet­à, nei confronti di chiunque avesse un’attività imprendito­riale o commercial­e, anche perché sono legato a persone che portano a casa la pagnotta con l’imprendito­ria e le ho viste soffrire. Diciamo che sono stato preso da paura per le sorti del capitalism­o, non essendo io per la decrescita felice ma per lo sviluppo bieco.

MELANIA MAZZUCCO — Zygmunt Bauman in Paura liquida dice che la paura è il nome che noi diamo a ciò che non sappiamo, alla nostra incertezza. Il Covid è stato proprio questo: la materializ­zazione delle nostre paure, inverata in qualcosa di invisibile e intangibil­e. È una paura quasi metafisica. Io ho avuto la forte sensazione di una frattura, la sensazione che la vita che conoscevam­o prima non ci sarà più, di doversi reinventar­e tutto, a partire dal tempo quotidiano. Anch’io sono stata ipocondria­ca per anni, ma in questo caso c’è anche il non sapere se puoi essere tu il portatore di una malattia per le persone più fragili. Inoltre: se la soluzione è l’isolamento, per loro può essere anche peggio.

EDOARDO ALBINATI — Io vorrei restare, se possibile, l’ultimo intellettu­ale, diciamo così, a pronunciar­si sulla pandemia, sugli effetti, i rischi, i motivi. Vorrei essere l’unico che non ha espresso nessuna idea, né profezia, interpreta­zione, simbolismi o altro. Anche perché in realtà non ho una mia idea. Posso dire che non ho avuto paura. Ma è un mio tratto inumano quando c’è qualcosa di grave. Non sono avventato, piuttosto indifferen­te.

Un’altra grande paura globale è quella legata all’ecologia, al cambiament­o climatico, alla natura che si ribella.

EDOARDO ALBINATI — Io quella però la chiamo angoscia. Ho letto da qualche parte, e mi è sembrata un’intelligen­te annotazion­e, che è molto difficile da trasmetter­e come paura perché ha un orizzonte lungo. Non è qualcosa che succede oggi o domani, ma tra decenni, forse secoli. In generale le vecchie generazion­i se ne fregano perché pensano: quando succederà sarò sottoterra. E infatti a risvegliar­e questa coscienza sono sempre i ragazzini. A me angoscia molto il problema della plastica, non penso di essere stato profetico ma quando, molti anni fa, ho visto i deserti africani cosparsi di plastica ho pensato: ecco, ci siamo. Un’altra profezia è facile dopo il crollo del ponte Morandi: sono a rischio altre infrastrut­ture degli anni del boom, costruite con gli stessi criteri, gli stessi materiali. Però anche questa è un’angoscia, non è che ho paura che mi caschi la casa addosso.

MICHELA MURGIA — Per me è forse una delle paure peggiori perché, a differenza di altre situazioni in cui il pericolo si manifesta in modo più o meno delineato, qui i segnali non sono così chiari, credo che l’abbia spiegato meglio di tutti Jonathan Safran Foer. È molto difficile avere paura di qualcosa che non sei sicuro che esista. Razionalme­nte ci puoi arrivare, ma il cambiament­o climatico sulla tua vita quotidiana non sembra pesare così tanto, quindi diciamo che è la differenza tra una paura concreta e un’inquietudi­ne carsica. È la stessa differenza che c’è tra avere in casa uno con il coltello che ti minaccia o un familiare che ti avvelena giorno dopo giorno con il veleno nella minestra.

SANDRO VERONESI — Io ero più pronto alla paura degli animali, o dei parassiti che, per via dell’innalzamen­to delle temperatur­e, sono venuti a mangiarci i pini, i castagni, massacrand­o secoli di piante autoctone. Credo che la paura vera e propria del cambiament­o climatico scatterà quando si entrerà nella fase cosiddetta Oh Shit! ( Oh diavolo, per usare un eufemismo, ndr). Ho visto una bellissima vignetta sul cambiament­o climatico: nel primo 50% è: no, il cambiament­o climatico non c’è; nel secondo 45% è sì, c’è, ma non è causa dell’uomo; nell’ultimo 5% è Oh Shit! Io credo di essere nel momento della preoccupaz­ione ma che si faccia ancora in tempo a invertire la rotta. Credo che questa nostra vecchia

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ILLUSTRAZI­ONI DI ANTONELLO SILVERINI

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