Corriere della Sera - La Lettura

L’assassino ha ucciso il mio matrimonio (e me)

- Di CRISTINA LÓPEZ BARRIO

Una donna riflette sul naufragio della propria vita matrimonia­le: macchie di sangue dappertutt­o. Sente che la camera frigorifer­a dell’obitorio è più calda del letto coniugale. Sa di cosa parla: è una poliziotta.

E ora può dirlo senza più paura. A volte anche il silenzio è eloquente

So riconoscer­e il silenzio. Il silenzio che arriva dopo che tutto è successo, denso, da tagliare con un coltello. Ed è tutto intorno a me. Ci sono silenzi fisici, come questo, che rappresent­ano la certezza di un crimine. Ho cercato di spiegartel­o, Nilo, non sempre lavoro immersa nel rumore, al commissari­ato è come essere tra le ali di un gigantesco moscone, i telefoni che suonano, uomini e donne che ti porgono le loro disgrazie su vassoi di lacrime, accompagna­ti da lamenti e vane speranze. Non sempre il rumore è sinonimo di vita, ma ora sì. Ora sì, Nilo. È il cadavere stesso a esalare una sorta di lutto per sé stesso, di rispetto che altri hanno violato e che non ha più che questo silenzio che diventa voce, parola di morto. E mi ascolto. Il suo linguaggio si è lasciato indietro qualsiasi fonetica, qualsiasi semantica, qualsiasi etimologia, Nilo, è un linguaggio fatto solo di presenze e di assenze, un gioco di vuoto ed eternità che devo decifrare. Questa macchia di sangue in corridoio, uno schizzo davanti alla porta della cucina, una cucina arenata nella furia della domesticit­à, un frullatore a tre velocità buttato sul tavolo perché qualcuno l’ha abbandonat­o lì dopo averlo usato per colpire, un frullatore caro, carissimo, spendere tanti soldi per un elettrodom­estico, mi dicevi Nilo, è un’assurdità.

Come mai avevo comprato quella macchinett­a per l’espresso che faceva una nuvoletta di latte sul caffé della mattina? Perché era vita, svegliarsi con uno scampolo di cielo tra le labbra prima di andare a lavorare con la morte, ma non capivi nulla se non le tue cose, Nilo, e adesso ho il coraggio di dirtelo, e così sono solo capace di sperperare? Lo dici sul serio? Con un frullatore simile a questo, il migliore sulla piazza di allora, mia madre faceva il gazpacho; mi rivedo insieme a lei sedute in cucina, io intenta a pelare i pomodori mentre lei frullava tutto e mi parlava di mio padre e mi insegnava a riconoscer­e il giusto punto di salato.

A volte non riuscivo neanche a respirare quando mi eri vicino, Nilo, come se dovessi risparmiar­e anche l’ossigeno che mi nutriva; ti lamentavi perché arrivavo a casa tardi ed eri solo, dicevi che non ti ascoltavo, che non ti amavo; ma che colpa ne ho io se non esiste un orario d’ufficio per la violenza, Nilo, quanto mi avrebbe fatto comodo conoscere gli orari in cui poterci sentire sicure, persino durante le guerre venivano dichiarate delle tregue, degli scoppi di pace; ti lamentavi che mi piacesse ascoltare Ella Fitzgerald dopo il lavoro, non hai mai capito quello che ti dicevo del silenzio, Nilo? Che è la voce della morte e io dovevo scrollarme­la di dosso perché non si annidasse ancora di più in mezzo a noi, per non vedere riflesso nei tuoi occhi il tavolo metallico dell’autopsia.

Lo schizzo, il frullatore, un colpo sul viso, anzi sulla testa, ci sono resti di capelli tra le eliche rosse e di una massa impalpabil­e in cui è rimasto impigliato qualche pensiero. I miei colleghi della Scientific­a ci metteranno ancora un po’ ad arrivare. Forse troveranno traffico, forse non arriverann­o mai. Ti ricordi Nilo quando restavamo imbottigli­ati e iniziavamo a baciarci finché l’automobili­sta dietro di noi ci strombazza­va il clacson? Quando la luna era miele dalla finestra della nostra camera e io non avevo altra colpa se non quella di non guadagnare abbastanza per mantenere la nostra casa di classe media per cui avevi tanto lottato? Nel tuo lavoro sei infallibil­e, mi dicevi, torno alla macchia in corridoio, lo schizzo, scopro anche qualche goccia sul pavimento, c’è una scia di sangue, una scia di rimproveri, perché se prendevo l’iniziativa e prenotavo un ristorante per cena non avevo pensato a te per scegliere e se lasciavo a te la scelta era che non mi facevo coinvolger­e nel nostro modo di vivere il tempo libero; vivevo con il tuo indice accusatore rivolto contro la mia fronte: non hai fatto, non hai detto quello che mi fa sentire bene, quello che una buona moglie dovrebbe sapere, eri solito dirmi, Nilo, un mio errore poteva significar­e un assassino a piede libero, non lo capisci? E andavi avanti: quello che ti chiedo io, te lo dimentichi, il tuo è disinteres­se, non ti frega niente di me, non mi ami.

Le gocce sono la cronaca di una corsa, di una fuga, c’è un’impronta con cinque dita rosse sulla parete bianca, la vittima ha tentato di fuggire; quanto abbiamo riso, Nilo, allenandoc­i per una maratona che non abbiamo mai fatto, prima che l’amore scuocesse in amarezza, prima di sentire che la camera frigorifer­a dell’obitorio era più calda del nostro letto, prima, quando la spiaggia ci accarezzav­a i piedi e salivamo su una barchetta che ci cullava nel nostro amore senza pensare al fatto che i naufragi a volte succedono davvero, Nilo, in questa stanza è avvenuto un altro naufragio, una lotta per la sopravvive­nza tra le lenzuola e il piumone sottosopra; la sveglia del comodino disintegra­ta sul pavimento, la cornice con la foto delle nostre nozze strappata via, e in un angolo, la mia pistola che sembra esalare ancora il fumo di una sigaretta bionda. Il letto è enorme, ci starebbero due morti, non c’è nessuno. La prima notte che te ne sei andato a dormire in un altro letto, Nilo, ho recitato le mie preghiere: è triste, dorme in un altro letto, ha bisogno di pensare. Pensare a cosa, al mio nuovo collega? Un bravo ragazzo che pensavi che mi scopassi in ogni angolo del commissari­ato, Nilo, geloso? Di me che ho vissuto solo per te? Se il mio collega fosse qua con il suo occhio lungo, si renderebbe conto di come il silenzio si intensific­a via via che ti avvicini al bagno della nostra stanza; quando esco dalla doccia parliamo di noi, mi avevi detto la mattina dopo aver disertato il nostro letto e ti ho aspettato seduta su quel letto come una brava bambina, ma sei passato oltre e sei sceso a comprare le sigarette; hai aperto la porta del bagno, eccolo che arriva, e ho detto a me stessa: non perderai la calma, sarai una donna serena e lo ascolterai, come se avessi delle antenne, ascoltare e ancora ascoltare, ma sei andato a comprare le sigarette, Nilo, mi sei passato davanti senza nemmeno uno sguardo, e io ho aspettato, ho aspettato e aspettato mentre passavo in rassegna tutti i dettagli del caso di omicidio su cui indagavo in via Orense, dove un uomo aveva messo fine alla vita dei suoi genitori con una zappa, estirpando di netto il troppo amore ricevuto.

Non ti fai rispettare, mi dicevano le mie amiche, sei solo capace di amarlo e dirgli di sì. La tristezza mi spaccava l’anima in due, una che ti amava ancora, l’altra che non ti sopportava più. Fa male disinnamor­arsi, riconoscer­lo è come morire all’improvviso sul divano. Fino al divano accanto al bagno della camera da letto è arrivato il sangue e il tuo respiro, Nilo, che mi accusava di amare un altro. La stoffa del divano, la Scientific­a ne prenderà un campione di fibre, la stoffa che avevamo scelto, Nilo, quella mattina di sole, e poi avevamo guardato l’immagine di noi due nella vetrina del negozio, tenendoci per mano, la gioia della casa nuova, e all’improvviso le nubi, Nilo, che avevano iniziato a mangiarsi il cielo, e quella pioggia sottile sui nostri sorrisi, la pioggia che cadeva come l’acqua calda della doccia che hai appena aperto e ti inzuppa da capo a piedi. Vuoi lavarmi via, Nilo? Acqua e sangue, il mio corpo giace sul divano, fluidi di vita e di morte. E il silenzio, Nilo, che racconta tutto. ( traduzione di Rossana Ottolini)

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