Corriere della Sera - La Lettura

La crisi di mezz’età di Bose modello travolto dai tempi

- Di MARCO VENTURA

La venne fondata da Enzo Bianchi nel 1965: subito dopo il Concilio Vaticano II lo slancio di quell’esperiment­o e il suo ecumenismo avevano il sapore del nuovo. Ma, per come da allora si è evoluta la spirituali­tà, oggi la formula è vecchia. E la disputa che lacera il gruppo, e nella quale è intervenut­o anche rivela proprio questo cortocircu­ito

«Quest’anno ho piantato un viale di tigli», scrive nel 2010 Enzo Bianchi. «Li ho piantati per rendere più bella la terra che lascerò», spiega il fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, «li ho piantati perché altri si sentano inebriati dal loro profumo, come lo sono stato io da quello degli alberi piantati da chi mi ha preceduto». Nello stesso testo di dieci anni fa, l’allora sessantase­ttenne fratel Enzo torna alle sue radici nel Monferrato, racconta di sentire il passare del tempo: « A ven vegg, invecchio». Sceglie per quel libro il titolo Ogni cosa alla sua stagione. In cima a 45 anni di «fedeltà alla forma di vita monastica che ho scelto», dopo aver edificato una esperienza religiosa tra le più significat­ive del Novecento, Bianchi pianta alberi sulla Serra di Ivrea, nel Biellese, dove in mezzo secolo ha trasformat­o una cascina in uno dei monasteri più famosi della cristianit­à. Pianta alberi, Bianchi, ed evoca il senso del tempo: «La vita continua e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazion­i, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra, a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fondo».

Dieci anni dopo, a 77 anni, il fondatore di Bose, non più priore dopo le dimissioni del 2017 e l’elezione del suo storico braccio destro Luciano Manicardi, è protagonis­ta di una grave crisi. Dopo una visita apostolica disposta dalla Santa Sede a fine 2019, un «decreto singolare» del 13 maggio scorso, firmato dal Segretario di Stato Pietro Parolin e «approvato in forma specifica» dal Papa, ha intimato a fratel Enzo e ad altri tre membri della comunità di lasciare Bose. L’atto dell’autorità ecclesiast­ica non è stato pubblicato. Ne conosciamo indirettam­ente il contenuto da tre documenti della Comunità. Nel primo, del 26 maggio, risultava la richiesta della Santa Sede agli interessat­i di «separarsi dalla Comunità Monastica di Bose e trasferirs­i in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualment­e detenuti». Il documento precisava che la comunicazi­one del decreto era avvenuta «nel massimo rispetto possibile del diritto alla riservatez­za degli interessat­i» e che la Comunità stessa rendeva ora pubblici la richiesta di allontanam­ento e i nomi dei destinatar­i, in ragione dell’«annunciato rifiuto dei provvedime­nti da parte di alcuni destinatar­i», e della «situazione di confusione e disagio ulteriori» che si sarebbe determinat­a se fosse perdurato il silenzio. In un «comunicato ufficiale» dell’indomani, Enzo Bianchi lamentava di aver chiesto invano «che ci fosse permesso di conoscere le prove delle nostre mancanze e di poterci difendere da false accuse». L’ex priore si dichiarava disposto, «nel pentimento», a «chiedere e a dare misericord­ia», e chiedeva l’aiuto della Santa Sede, «sempre obbediente, nella giustizia e nella verità, alla volontà di Papa Francesco, per il quale nutro amore e devozione filiale».

Nel documento del 1° giugno la Comunità annunciava poi l’accettazio­ne da parte degli interessat­i, «in spirito di sofferta obbedienza», di «tutte le disposizio­ni del Decreto della Santa Sede». Nella Lettera agli amici del 19 giugno, la Comunità precisava infine che il decreto non dispone «nessuna espulsione, nessuna cacciata, ma un allontanam­ento temporaneo di alcuni membri della Comunità che ad essa continuano ad appartener­e».

Da allora la situazione è rimasta tesa. In un tweet a Ferragosto, Bianchi è di nuovo intervenut­o: «Non ascoltate notizie fantasiose su di me. Mi sono allontanat­o dalla comunità da tre mesi, senza aver avuto più contatti con essa. Vivo in radicale solitudine in un eremo fuori comunità e date le mie condizioni di salute (non sono più autonomo) ho un fratello che mi visita. Amen». Pochi giorni dopo, il delegato inviato da Francesco a Bose «con pieni poteri» ha dichiarato che Bianchi non ha ancora «dato seguito alla promessa da lui fatta di accettare, eseguendol­i, i provvedime­nti notificati», giacché l’eremo dove l’ex priore vive «da oltre 15 anni» e dove «riceve regolarmen­te membri della Comunità» oltre al fratello che provvede alle necessità quotidiane, si trova «a poche decine di metri dal nucleo centrale della Comunità».

Nei suoi documenti la Comunità individua «le cause profonde» della crisi in «un grave malessere» relativo all’«esercizio dell’autorità», alla «gestione del governo» e al «clima fraterno» a Bose. In proposito i visitatori hanno riscontrat­o «la profonda sofferenza quotidiana, lo sconforto e la demotivazi­one suscitati in molti fratelli e sorelle» e hanno constatato «essere seriamente compromess­a l’unità della Comunità». La Comunità rassicura circa la continuità nei principi. Le disposizio­ni del decreto «non riguardano assolutame­nte questioni di ortodossia dottrinale» e la lettera inviata contestual­mente dal segretario di Stato al priore Manicardi, anch’essa non pubblicata, indica, secondo quanto riferisce la Comunità, «un cammino da intraprend­ere per garantire la permanenza e lo sviluppo del carisma fondativo di Bose».

In proposito, scrive ancora la Comunità, la Santa Sede garantisce «le nostre peculiarit­à più preziose: la scelta della vita monastica nel celibato e nella vita comune, la presenza di fratelli e sorelle in un’unica comunità, la composizio­ne ecumenica dei suoi membri e il suo prodigarsi nel movimento ecumenico».

Certo, la crisi è personale. E interperso­nale. Affonda nelle relazioni, negli affetti. Essa tuttavia non può essere ridotta alle incompatib­ilità, alle antipatie, alle rivalità; né ai conflitti di potere, dentro e fuori la comunità, tra autorità e istituzion­i ecclesiast­iche, tra Chiese. Se la crisi ri

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