Corriere della Sera - La Lettura

La predizione di Faulkner «L’uomo vince». Sì, troppo

- Di DAVID QUAMMEN

Risulta molto difficile fare previsioni su eventi casuali, fenomeni naturali e sull’incerto co mporta mento u mano. È difficile, ad esempio, prevedere un incendio in un bosco. Potremmo sapere che ci sono stati anni di siccità causati da cambiament­i climatici, che questo ha inaridito i boschi e reso il legno molto secco e che un secolo di misure antincendi­o inadeguate ha permesso che si accumulass­ero alberi morti, a terra o ancora in piedi, che alimentano pericolosa­mente i possibili incendi. Non sappiamo, però, quando una scintilla farà scoppiare un piccolo incendio e non sappiamo se si riuscirà a domarlo efficaceme­nte prima che si diffonda.

Lo ripeto: non sappiamo quando, ma sappiamo che succederà.

Lo stesso accade con le pandemie, con il Covid-19 in particolar­e.

Gli scienziati che studiano le malattie infettive sapevano che questo evento era in arrivo. I funzionari della sanità pubblica che si dedicano al controllo delle malattie infettive sapevano che era in arrivo. I leader politici erano stati avvertiti che era in arrivo ma alcuni di loro, in particolar­e il superficia­le e mendace presidente del mio Paese, gli Stati Uniti, hanno scelto di ignorare quegli avvertimen­ti.

Perché? Perché prepararsi è relativame­nte costoso e nessuno può dire esattament­e quando si verificher­à una pandemia, l’ondata globale di una malattia letale per l’uomo. E se questa pandemia non arrivasse prima di otto anni e il politico cinico, privo di immaginazi­one ed egoista avesse calcolato di non essere più in carica, a quel punto? Potrebbe aver scelto di evitare i costi necessari per essere pronti.

Una logica così miope spiega più di ogni altra cosa perché gli Stati Uniti d’America siano stati tanto impreparat­i nei confronti del Covid, tanto che ora detengono il primato mondiale di casi e di esiti mortali.

Oltretutto, come ora vediamo, i costi per prepararsi sono minimi a paragone dei costi di una pandemia.

Altri Paesi, inclusa l’Italia, hanno sofferto terribilme­nte per il Covid-19. Quei picchi di malattia, dolore, morte e disastro economico sono stati il risultato di scelte politiche impreviden­ti o soltanto di sfortuna? Lascio la risposta a chi conosce bene come si sono svolte le cose nel suo Paese. Le cause e la probabile forma di questa pandemia erano discernibi­li molto prima che si verificass­e. Dieci anni fa, nel fare ricerche per il mio libro Spillover (l’edizione in inglese è uscita nel 2012, quella italiana nel 2014), chiesi a numerosi scienziati specialist­i in epidemie se fosse in arrivo una grande pandemia e come si sarebbe manifestat­a.

La chiamammo Next Big One. Furono tutti concordi nel rispondere che sì, in un futuro vicino ci sarebbe stata una Next Big One, una grande pandemia. Sarebbe stata causata da un nuovo virus, mai prima considerat­o in grado di colpire gli umani. Che tipo di virus? Probabilme­nte un’influenza... o un coronaviru­s, perché i virus di entrambe queste due famiglie sono altamente adattabili e in passato hanno dimostrato capacità di infettare gli esseri umani. Questo virus sarebbe venuto da un animale selvatico. Sarebbe, cioè, stata una zoonosi, un’affezione animale trasmissib­ile all’uomo. Da che tipo di animale selvatico sarebbe venuta? Molto probabilme­nte da un pipistrell­o. In quali circostanz­e si sarebbe verificata? In situazioni in cui gli esseri

Ricevendo il Nobel, il romanziere americano disse che si rifiutava di accettare visioni apocalitti­che: credeva che «l’uomo non si limiterà a resistere, ma vincerà». Ecco, lo abbiamo fatto fin troppo bene. Mentre continuiam­o a distrugger­e le foreste, prevarrà anche un’altra forma di vita: i virus. Alla fine potremmo essere noi contro di loro. Può salvarci la nostra saggezza, l’autocontro­llo

umani sarebbero entrati in contatto in maniera distruttiv­a con la fauna selvatica, ad esempio cacciandol­a o trasportan­do animali selvatici vivi in un «mercato umido». Dove avrebbe potuto verificars­i? Probabilme­nte in Cina.

È tutto nel libro. Non perché io sia stato preveggent­e, ma perché gli scienziati che ho consultato sapevano leggere i segnali.

Più del sessanta per cento delle malattie infettive umane rientrano in questa categoria, quella delle malattie zoonotiche. L’altro quaranta per cento è zoonotico in un senso più ampio: in qualche momento del lontano passato, un virus o un batterio o qualche altro tipo di agente infettivo è passato dalla fauna selvatica alle persone. Tutto ha un’origine animale, e noi umani siamo una specie relativame­nte giovane, siamo animali, quindi prendiamo le malattie da altri animali.

Nel secolo scorso la situazione è cambiata drasticame­nte.

Cento anni fa, all’epoca della pandemia influenzal­e del 1918, la popolazion­e umana contava meno di due miliardi di persone. Oggi siamo quasi otto miliardi. In soli cento anni siamo quadruplic­ati, al punto che siamo più numerosi di qualsiasi altro animale di grandi dimensioni mai vissuto sulla Terra, come risulta dai reperti fossili. E con la nostra intelligen­za, la nostra tecnologia, la nostra avidità e le nostre esigenze, causiamo sconvolgim­enti senza precedenti al resto del mondo naturale. Ogni scelta che facciamo — co s a mangi a mo, co me c i ve s t i a mo, quanto viaggiamo, quanti figli abbiamo (se ne abbiamo) — si traduce in un trasferime­nto di risorse dalla natura a noi. Attingendo a queste risorse, prendiamo anche i virus che allignano negli animali selvatici.

E quando un nuovo virus si annida nella sua prima vittima umana, se è trasmissib­ile, se riesce a diffonders­i grazie a un colpo di tosse, a uno starnuto, al cantare in un coro o anche soltanto col parlare, può passare da uomo a uomo e girare il mondo alla velocità di un aeroplano. Può causare una devastazio­ne globale, distrugger­e le economie, sconvolger­e la vita comunitari­a, portare dolore e morte a milioni o miliardi di persone.

Questa è la nuova storia umana, la nuova storia della vita sulla Terra che gli scienziati illustrano, che i politici preferisco­no ignorare e che gli scrittori di tutte le forme letterarie — narrativa, poesia, teatro, persino la saggistica che tenta di combinare le spiegazion­i scientific­he con la narrativa — devono affrontare. Nel discorso di accettazio­ne del Premio Nobel nel 1949, il romanziere americano William Faulkner (sul quale ho scritto la tesi di laurea, molto prima di diventare uno scrittore che si occupa di scienza) disse — in modo memorabile — che, anche se in quei tempi di guerra fredda alcuni predicevan­o la fine dell’umanità, lui si rifiutava di accettare una visione così apocalitti­ca.

Credeva, disse, che «l’uomo non si limiterà a resistere, ma prevarrà».

Se Faulkner potesse vederci ora, riconoscer­ebbe, credo, che l’umanità ha prevalso fin troppo bene.

Le sue amate distese del delta del Mississipp­i, i luoghi in cui ha ambientato racconti indimentic­abili come L’orso, sono state convertite alla coltivazio­ne della soia. La grande foresta di cui ha scritto in una raccolta di racconti di caccia è diventata una serie di boschetti. In altre parti del pianeta l’umanità non solamente ha resistito, ma ha prevalso egemonicam­ente.

Abbiamo dominato i paesaggi. Abbiamo conquistat­o il deserto, purtroppo. E mentre continuiam­o a distrugger­e le foreste, a reclamare la terra per le nostre coltivazio­ni, a mangiare la fauna selvatica, prevarrà anche un’altra forma di vita: i virus. Alla fine, potremmo essere noi contro di loro.

Prima di arrivare a quel punto, ciò che può salvarci non sono solo la nostra intelligen­za scientific­a e la nostra abilità tecnologic­a ma, se l’abbiamo, è la nostra saggezza. Siamo creature intelligen­ti, anche più intelligen­ti dei virus. A differenza di loro, abbiamo la capacità di scegliere l’autocontro­llo.

La grande domanda è se ci riusciremo.

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Qui accanto: illustrazi­one di Capellini. Più a sinistra, dall’alto: la scrittrice francese Valérie Perrin (1967), lo spagnolo Manuel Vilas (1962), l'indiano naturalizz­ato britannico Salman Rushdie (1947), il nigeriano premio Nobel Wole Soyinka (1934)

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