Corriere della Sera - La Lettura

Contro l’odio social impariamo a negoziare

- conversazi­one tra FEDERICO FALOPPA, MASSIMO PICOZZI e DANIELE RIELLI a cura di SEVERINO COLOMBO

Un linguista che indaga la violenza delle parole nella vita, compresa quella online; uno psichiatra e criminolog­o che studia come il dialogo possa nel quotidiano — al lavoro, in famiglia, sul web — disinnesca­re il conflitto; uno scrittore che dipinge un ritratto credibile e crudele del nostro presente a partire dalle insidie di social network e piattaform­e web. Sono Federico Faloppa, che vive in Gran Bretagna dove insegna Storia della lingua all’Università di Reading; Massimo Picozzi, criminolog­o, docente alla Bocconi, consulente di polizia e carabinier­i; e Daniele Rielli, scrittore, conoscitor­e delle nuove tecnologie: «la Lettura» li ha messi virtualmen­te attorno a un tavolo a discutere di ciò che unisce e caratteriz­za i loro lavori più recenti: l’odio.

Per i temi che affrontate e per come li affrontate vi siete meritati il soprannome dei personaggi di un celebre film di Sergio Leone: il Buono (Picozzi), il Brutto (Faloppa) e il Cattivo (Rielli)...

DANIELE RIELLI — Odio è un romanzo realistico, una lettura quasi documentar­ia del nostro tempo. In questo non mi sono posto il problema se una cosa fosse cattiva o meno. C’è un tentativo di mimetismo, anche linguistic­o, con la realtà: se ciò che emerge dalle ricerche non è particolar­mente buono, né accomodant­e e neppure ottimista, allora il risultato sarà un romanzo in alcuni punti molto duro, ma in altri anche divertente. Ci sono den

tro tutti gli estremi, un po’ come accade nella vita.

FEDERICO FALOPPA — È inevitabil­e che mi tocchi il Brutto, occupandom­i di linguaggio ho dovuto nominare l’odio in modo esplicito, con tutte le formulazio­ni dall’ingiuria alle modalità in cui il linguaggio veicola un’aggressivi­tà verbale. Nel libro c’è una premessa: le espression­i che i lettori leggeranno sono lì per dare un’idea della realtà del fenomeno, perché

il Brutto sta anche nel non capire quanto possono essere violente e aggressive.

MASSIMO PICOZZI — Dare del «buono» a me con il mestiere che faccio suona strano: ho avuto la fortuna, tra virgolette, di vedere l’odio in prima fila. Appena laureato in Medicina il primo lavoro è stato in un carcere di massima sicurezza, come pazienti mi occupavo del boss Epaminonda e di altri simili. Penso che la maggior parte delle manifestaz­ioni a cui assistiamo sono espression­i di rabbia: per odiare occorre fare un salto di qualità. Prendere la rabbia e strutturar­la in qualcosa di più pesato, meditato. Vedo dilagare una rabbia che va sfogata immediatam­ente. Il libro è pensato per disinnesca­re rabbia e odio. Avete mai sentito parlare di John Douglas? È un profiler, è stato il fondatore della scienza del comportame­nto, Netflix gli ha dedicato la serie tv Min

dhunter; è andato in pensione a 50 anni e subito l’hanno cercato le multinazio­nali per fare selezioni di top manager. Questa commistion­e tra cultura criminolog­ica e realtà di tutti i giorni fa pensare.

Avete avuto la sensibilit­à di cogliere qualcosa di importante che era in atto nella società e sul web. Qual è stato il momento o il fatto che vi ha spinto a occuparvi dell’odio? E nel caso di Rielli, che è anche autore di reportage giornalist­ici, perché ha scelto la forma del romanzo anziché dell’inchiesta?

DANIELE RIELLI — Che scriva reportage o romanzi per me il rapporto con la realtà è fondamenta­le, e nella realtà di oggi è centrale il cambiament­o del sistema informativ­o. Non è più la società della carta stampata, né della television­e, ma quella digitale. Vale a dire una società orizzontal­e dove chiunque può esprimersi in qualunque momento a costo zero, mentre tutto il resto — le istituzion­i, l’economia — è rimasto verticale. È una novità di portata storica e la tensione fra i due piani si sta facendo insostenib­ile, richiede il continuo sacrificio di capri espiatori. I movimenti populisti emersi in questi ultimi anni non sarebbero mai stati possibili nel sistema informativ­o precedente. Non avrebbero potuto veicolare il loro messaggio di distruzion­e di ogni competenza. Le piattaform­e digitali hanno un potere che supera spesso (e volentieri) quello dei governi: decidendo la forma del discorso pubblico sono per molti versi loro a determinar­e chi sarà eletto. Il fenomeno dal punto di vista filosofico è ancora più ampio: quello che si va affermando è una sorta di tribalismo digitale che riguarda ogni cosa... Il libro nasce anche dall’esigenza di raccontare quanto sia difficile vivere in un mondo dove i valori si formano in un ecosistema digitale di questo tipo. Mi ha colpito anche la vicenda di Peter Thiel, grande seguace di René Girard, che ha investito per primo in Facebook. In effetti in Facebook si ritrovano i due architravi del pensiero girardiano: il capro espiatorio e l’imitazione mimetica.

FEDERICO FALOPPA — Ho studiato il lessico, la diversità e la formulazio­ne della diversità attraverso il lessico. Vent’anni fa su questi temi ho scritto Lessico e alte

rità; poi ho lavorato sulle espression­i con cui abbiamo etichettat­o l’altro; ho studiato la polarizzaz­ione noi/loro e il modo in cui etichettia­mo il diverso in una dimensione offline. Oggi quantitati­vamente e antropolog­icamente è cambiato molto: i mezzi digitali non sono solo moltiplica­tori, hanno cambiato il nostro modo di relazionar­ci all’altro, al contesto; spesso non ci consentono il tempo necessario per valutare le situazioni e per pesare le

La violenza verbale è migrata dalla società alla television­e e ormai da tempo ha invaso i social network. Tre libri diversi per natura e approccio, usciti quasi negli stessi giorni, affrontano questa «emergenza culturale». «La Lettura» ha invitato i loro autori a confrontar­si: Federico Faloppa è un linguista che indaga le parole aggressive, online e offline; Massimo Picozzi è uno psichiatra e criminolog­o che studia i processi di mediazione per disinnesca­re i conflitti; Daniele Rielli è uno scrittore ed esplorator­e delle nuove tecnologie

parole che utilizziam­o. Ho sentito l’urgenza di parlare di quello che metaforica­mente viene chiamato il virus dell’odio. Molte espression­i e ingiurie di cui mi occupo non nascono oggi e non vengono dai social media, ma certamente c’è stata, anche per la natura del mezzo, una moltiplica­zione. Per cominciare serve ragionare su cosa sia il linguaggio dell’odio, l’hate speech, visto che al momento non c’è una definizion­e condivisa. Poi, sul piano giuridico serve capire quando finisce il diritto di parola, di espression­e e quando iniziano la tutela e la lotta alle discrimina­zioni. Da linguista mi interessan­o sia le forme discorsive che le formule più subdole, più nascoste e implicite, come le fallacie argomentat­ive. Anche quando il linguaggio non è esplicito può però incitare la produzione di discorsi d’odio. Mi sono chiesto dove stia la responsabi­lità individual­e e dove quella del mezzo e quali strumenti abbiamo per scaricare l’arma in mano agli odiatori, ma il fatto è che non c’è un profilo solo degli hater. Tutti possiamo incorrere in un linguaggio d’odio a volte per distrazion­e, altre perché rispondiam­o in maniera immediata, emotiva, impulsiva e non ci accorgiamo dei possibili danni.

— Un paio d’anni fa in un libro scritto con Carlo Lucarelli, Le stragi dell’odio, raccontavo che nell’ambito della criminolog­ia sono un po’ spariti i serial killer per lasciare spazio a stragi che si appoggiano molto sui social, nel senso che personaggi, motivati da odio razziale o da altro agiscono sempre preparando un video prima di uscire di casa e colpire, affidando alla rete una sorta di testamento di onnipotenz­a narcisisti­ca: Farò un gran gesto e rimarrò per sempre nella Storia. Questo nuovo libro viene da lì, ma anche da gesti meno estremi: come il fatto che fino a dieci, quindici anni fa l’unico dibattito in tv dove i vari ospiti si sovrappone­vano urlandosi addosso era Il processo di Biscardi, che non sopportavo, mentre oggi non esiste nessun talk show dove si possa esprimere civilmente il proprio pensiero senza gridare. La spinta decisiva per riflettere su soluzioni per arginare l’odio è stato un caso reale che ho seguito in prima persona, da perito della Procura: quello di Luca Traini, un ragazzo di Macerata con problemati­che personali che è diventato un vendicator­e solitario. Uscì di casa con la pistola e sparò alle prime persone di colore che incontrò in strada sulla spinta di una notizia diffusa sui social. Il fenomeno della rabbia e dell’odio mi preoccupa molto come serbatoio per il futuro. Certo il numero di omicidi volontari e di crimini violenti in Italia non è mai stato così basso, la violenza estrema è a livelli minimi, ma credo che si stia creando un bacino di rabbia e odio pronto a esondare. Sul luogo di lavoro, ad esempio, dove ciascuno di noi trascorre la maggior parte della giornata, il problema

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ILLUSTRAZI­ONI DI SR GARCÍA

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