Corriere della Sera - La Lettura
Baudelaire contro la natura
Qualche settimana fa, se un fortunale biblico non me lo avesse impedito, avrei parlato di Baudelaire al Festival della bellezza di Verona. Il che appare davvero ironico considerando che l’idea di bellezza propugnata da Baudelaire muove da un odio inflessibile e disperato per la natura: se fossi superstizioso un terzo di quanto lo era lui («la superstizione è la sola vera sapienza»), direi che la natura ha trovato un modo davvero persuasivo di chiudermi il becco.
Il più grande poeta dell’Ottocento?
Non so dire se Charles Baudelaire sia il più grande poeta dell’800 francese. D’altronde, non so neanche se abbia senso sottoporre i poeti ai capricciosi parametri del ranking tennistico.
Com’è noto, André Gide era spiacente di dover conferire tale primato (il più grande poeta dell’Ottocento) a Victor Hugo, la cui prosodia, rispetto a quella baudelairiana, risulta ancora oggi decisamente più schietta e spigliata. D’altro canto, non ha senso nascondere come, dal punto di vista formale, Rimbaud e Mallarmé abbiano avuto un impatto più deflagrante e duraturo sui poeti a venire (non solo francofoni).
Primato intellettuale
Una cosa però vorrei dirla, a costo di apparire infantilmente sentenzioso: Baudelaire è stato uno dei francesi più intelligenti dai tempi di Montaigne.
Sulla natura di tale intelligenza, però, occorre intendersi. Essa, infatti, non sembra possedere i requisiti che di norma le attribuiamo accostandola a Cartesio o Einstein.
È stato notato, ad esempio, come le idee di Baudelaire abbiano il difetto dell’immodificabilità. Ciò che Charles pensa a quindici anni si ostina a pensarlo un trentennio più tardi, alle soglie della tomba, quando il lento logorio cerebrale inflitto dalla sifilide gli sta per togliere la possibilità di esprimerle compiutamente.
Poi va considerato il gusto baudelairiano per i ragionamenti paradossali, figlio di quel suo temperamento sulfureo e risentito. Allievo di de Maistre, precursore dei grandi reazionari novecenteschi, Baudelaire è precocemente, fatalmente attratto da ogni forma di oscurantismo: demonismo, sadismo, autoritarismo, super
stizione, pena di morte, misoginia, antisemitismo... Insomma, odia i borghesi, i democratici e gli illuministi. E li odia per le ragioni per cui siamo soliti apprezzarli: la fiducia con cui si sono affidati alla luce del buonsenso.
D’altra parte, malgrado anche questo sia motivo di dibattito tra gli specialisti, Baudelaire è privo di ironia. Per trovarne traccia occorre rivolgersi a certe giovanili prose narrative e saggistiche, che peraltro confermano come il registro ironico non gli si confaccia. Il fraseggio della sua prosa, la tornitura dei celebri versi adamantini sono talmente solenni da sembrare scolpiti nel marmo o ricavati dall’acciaio. Non a caso, a quelli mediterranei, predilige gli spiriti nordici. Tra i più accesi ammiratori di Wagner, idolatra (qua e là persino a sproposito) i grandi quadri di Delacroix e le poesie di Edgar Poe.
C’è da dire, inoltre, che, a fronte dei mille struggenti richiami al lavoro e alla disciplina, Baudelaire, come dimostra la sua opera imbarazzantemente succinta, è un bel debosciato.
A chiudere il quadretto non proprio edificante, ricordiamo che, sin dalla maggiorità, il tenore di vita del giovane dandy parigino ha rivelato una tale dissennatezza da spingere la madre a interdirlo. Proprio così: questo genio dell’umanità ha vissuto la sua vita breve e scalognata — perseguitato da indigenza, stravaganza e insuccesso — sotto tutela, come un qualsiasi mentecatto.
Insomma, come può un’intelligenza esprimersi a livelli così sublimi e profetici se l’individuo che se ne avvale professa idee granitiche, aborrisce ogni istanza razionalista, non si avvale del salvifico distacco garantito dall’ironia, è artisticamente stitico e così sprovvisto di senso pratico?
La risposta non è poi così difficile. La lucidità baudelairiana è di una marca molto speciale. In un certo senso, è un’intelligenza al negativo. Ma possiamo anche chiamarla «intelligenza estetica». Sono pochi gli intelletti che hanno saputo spiegarci con tanta semplicità e mostrarci con altrettanta compostezza cos’è la poesia, cos’è l’arte, cos’è la critica, cos’è il classico, cos’è il moderno, cos’è la moda, cos’è un dandy, cos’è un flâneur, cos’è una metropoli. La sua intelligenza estetica e al negativo gli ha consentito di scovare poesia là dove nessuno, prima di lui, aveva neppure osato cercarla. Ecco perché quel che scriveva Giovanni Macchia qualche anno fa non smette di valere: «La nostra epoca è diventata sempre più “baudelairiana”. È diventata baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo».
A dimostrazione di quanto Macchia avesse ragione, considerate la natura dialettica del pensiero baudelairiano che sembra anticipare il sistema binario che ha reso possibile l’informatica. Baudelaire vede antinomie ovunque: tra Carne e Spirito, tra Male e Bene, tra Spleen e Ideale, tra Natura e Uomo, tra Città e Campagna, tra Dio e Satana. Il suo genio manicheo gli consiglia di non risolvere questi dualismi, ma anzi di goderne come il frutto della complessità umana.
Il bello non è naturale
Naturalmente tale intelligenza estetica si esprime soprattutto nella definizione del bello che, per certi versi, ricorda parecchio alcune speculazioni leopardiane. Alla fine della sua vita scrive: «Ho trovato la definizione del bello — del mio bello. È qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia corso alla congettura». Ma questa, ne convengo, è una definizione alquanto impressionista e, per stessa ammissione dell’interessato, un tantino troppo personale, e quindi opinabile.
Di norma Baudelaire è più caustico e circostanziato. Per esempio, ritiene che la bellezza sia tutto ciò che non
è naturale. Così prende le distanze sia dall’illuminismo che dal romanticismo. I suoi idoli polemici, per ragioni diverse ma complementari, sono Voltaire e Rousseau. Nei confronti del primo ostenta disprezzo. Per il secondo una deferente diffidenza. Resta il fatto che la natura gli fa schifo e orrore come fa schifo e orrore ai temperamenti schifiltosi. Lo dico da aracnofobico di lungo corso.
Conosco l’obiezione che un ecologista dei nostri giorni potrebbe fare a un’idea così truce e dogmatica. Che senso ha separare l’uomo dalla natura? L’uomo fa parte della natura. L’uomo è una cosa naturale immersa nella natura, come un lichene o uno scarafaggio. Separare l’uomo dalla natura è una forma di antropocentrismo antiquato e infantile. A questa obiezione se ne aggiunge un’altra di stampo utilitaristico: mentre la natura può fare a meno dell’uomo, l’uomo per proliferare ha bisogno dei beni che la natura gli garantisce.
Tali argomentazioni non fanno una piega. Ma temo che Baudelaire le avrebbe rispedite al mittente con una contro-obiezione altrettanto valida: l’ecologia stessa è un’invenzione umana, una scienza che risponde a un’esigenza di razionalizzazione tipica della nostra specie, che a sua volta nasce da un preciso codice morale. A
Allievo di de Maistre, Baudelaire è attratto da ogni forma di oscurantismo: demonismo, sadismo, autoritarismo, superstizione, pena di morte, misoginia, antisemitismo. Insomma: odia i borghesi, i democratici, gli illuministi. Dotato di una straordinaria «intelligenza estetica» o «al negativo», Baudelaire è graniticamente convinto che è bello tutto ciò che è innaturale. La natura, in poche parole, lui la disprezza. Chissà, forse, se vivesse oggi, farebbe una campagna a favore della plastica come invenzione umana non degradabile. Perché, direbbe, il bello è una forma di resistenza al tempo, e quindi alla natura. La natura, ripete, non molto distante da Leopardi, non fornisce alcun ammaestramento e nessun esempio utile
Baudelaire non sfugge che l’opera umana mira alla perpetuità laddove la natura prolifera nel cambiamento. Da quel che ci consta, l’uomo è la sola creatura terrestre a percepire con terrore ciò che Baudelaire chiama «l’idea e la sensazione del tempo». Ecco, il bello è una forma di resistenza al tempo, e quindi alla natura.
Brutta e cattiva
Su questo Baudelaire non ha dubbi e non ci va per il sottile. «La maggior parte degli errori intorno al bello», scrive nel Pittore della vita moderna (uno dei più bei saggi mai scritti), «nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale. La natura in quel periodo era considerata quale base, origine e archetipo di tutto il bene, e di tutto il bello possibili».
La natura, ci ammonisce Baudelaire, non è bella né buona. Anzi, per dirla in modo infantile, è brutta e cattiva. Chissà, forse, se vivesse oggi, farebbe una campagna impopolare a favore della plastica come invenzione umana non degradabile. Una campagna dissennata e autolesionista, certo, ma che va al cuore della protesta metafisica baudelairiana. Del resto, chi crede che il conflitto tra uomo e natura sia una questione contemporanea, da addebitare agli abusi umani della Rivoluzione industriale, non ha senso della storia. Da che mondo è mondo l’uomo si trova a lottare contro pestilenze e carestie che non è stato lui a provocare. E da che mondo è mondo, i poeti non fanno che lamentarsene.
Baudelaire è persuaso che la natura non fornisca alcun ammaestramento e nessun esempio utile: «La natura non insegna nulla, o quasi nulla, in altre parole, che essa costringe l’uomo a dormire, a bere, a mangiare e a proteggersi, nei modi che può, contro gli effetti ostili dell’atmosfera». Anzi, i precetti che la natura impartisce sono per lo più biechi e perversi: «La natura spinge l’uomo a uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine della necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto».
Appare chiaro come Baudelaire non ritenga la natura in alcun modo una controparte affidabile. E ancora una volta il nostro pensiero corre a Leopardi. C’è una differenza sostanziale tra i due. Leopardi parla da una prospettiva atea e materialista. Accusa la natura ma in cuor suo sa che non ha alcun senso farlo. Perché essa è indifferente alla causa umana, come il resto dell’universo.
Altro è il caso di Baudelaire la cui prospettiva, anche se in una forma paradossale, quasi pascaliana, è anzitutto cristiana. Ciò gli offre l’opportunità, non concessa a Leopardi, di identificare la natura con il male, se non addirittura con Satana.
Elogio del trucco
Ciò spiega perché lui non solo ritenga la natura catti
va ma anche brutta. Il bello è tutto ciò che non è naturale, abbiamo detto; e quindi, tutto ciò che è artificioso e artificiale. I manufatti, per quanto anch’essi fatalmente caduchi, aspirano alla precisione e all’eternità. I cosiddetti doni dalla natura, invece, sono sempre imprecisi e destinati alla dissoluzione (non c’è una mela uguale all’altra; non c’è pera che non marcisca).
Tale assunto spinge Baudelaire ad avventurarsi in un vertiginoso elogio del maquillage, e non solo quello femminile ma anche quello di certi maschi tribali e dei bambini. Baudelaire ama le donne che si avvalgono di un trucco pesante, così come ha un debole per gli uomini tatuati e i fanciulli mascherati. «Il selvaggio e l’infante con la loro ingenua aspirazione verso ciò che brilla, i piumaggi multicolori, le stoffe cangianti, la maestà superlativa delle forme artificiali, attestano il loro disgusto per il reale, e dimostrano così, inconsapevoli, l’immaterialità della propria anima». Probabilmente, qualora l’avesse conosciuta, avrebbe scritto a favore della chirurgia plastica estrema: non quella che mira a nascondere le rughe dell’età, a ringiovanire, ma quella che aspira a stravolgere i connotati.
L’uomo delle folle
Immagino che qualcuno di fronte a certi argomenti possa storcere la bocca fino a liquidare Baudelaire come un pervertito. In questi nostri tempi in cui un subdolo totalitarismo intellettuale ammantato di moralità minaccia la libertà di ciascuno di noi di pensare quel che vuole, ci sarà sicuramente chi troverà sconcio continuare a leggere certe intemerate baudelairiane. Naturalmente non sono tra questi. Anzi, nella mia piccola vita di scrittore, ritengo Baudelaire un’ineludibile fonte di ispirazione. Credo di dovere a lui l’amore infinito per le grandi città, il fastidio per ogni quadretto rupestre, l’insofferenza al senso comune.
Per dirla tutta, Baudelaire fa parte di quel pantheon di autori cui ritorno spesso e volentieri. Di cui non mi stanco mai. E che ogni volta mi dicono qualcosa che so ma in modo del tutto nuovo.
Non è un caso che mi abbia accompagnato, e per certi versi confortato, durante la quarantena cui tutti siamo stati sottoposti nel marzo scorso. È stato naturale affidarsi a lui. Non mi ero mai trovato in modo così irrefutabile nel cuore di un incubo baudelairiano. Assediato da un morbo subdolo, potenzialmente letale, costretto a non poter passeggiare nella mia meravigliosa città, una città privata dei suoi svaghi, i lussi, gli affollati luoghi di ritrovo: cinema, bar, ristoranti, pasticcerie... È allora che ho riaperto per la centoventiduesima volta (si fa per dire) Il pittore della vita moderna.
In uno dei suoi capitoli, Baudelaire, prendendo spunto da un racconto di Poe e stravolgendolo a suo modo, si sofferma sull’«Uomo delle folle». Chi è costui? È un tizio qualunque appena uscito da una lunga malattia che lo ha quasi accoppato. In un paio di straordinari capoversi, Baudelaire sottopone al vaglio delle nostre sensibilità la condizione privilegiata del convalescente. Chi è il convalescente se non colui che, almeno temporaneamente, ha avuto la meglio sulla natura? In piena quarantena, la descrizione del convalescente seduto al tavolino di un bistrot mi è parsa appropriata e toccante: «Reduce dalle ombre della morte, egli aspira con delizia tutti i germi e gli effluvi della vita; e siccome è stato sul punto di un oblio totale, ora ricorda e vuole intensamente ricordare ogni cosa. Alla fine, si precipita in mezzo alla folla in cerca di uno sconosciuto la cui fisionomia appena intravista lo ha, nel giro di uno sguardo, affascinato. La curiosità è diventata una passione fatale, irresistibile». Insomma, Baudelaire intravede una sintonia tra l’artista metropolitano e il convalescente. Entrambi scampati per poco alla violenza della natura, scelgono la città, la folla, la confusione; in parole povere, l’umanità affluente, viziosa e senza meta.