Corriere della Sera - La Lettura

Baudelaire contro la natura

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Qualche settimana fa, se un fortunale biblico non me lo avesse impedito, avrei parlato di Baudelaire al Festival della bellezza di Verona. Il che appare davvero ironico consideran­do che l’idea di bellezza propugnata da Baudelaire muove da un odio inflessibi­le e disperato per la natura: se fossi superstizi­oso un terzo di quanto lo era lui («la superstizi­one è la sola vera sapienza»), direi che la natura ha trovato un modo davvero persuasivo di chiudermi il becco.

Il più grande poeta dell’Ottocento?

Non so dire se Charles Baudelaire sia il più grande poeta dell’800 francese. D’altronde, non so neanche se abbia senso sottoporre i poeti ai capriccios­i parametri del ranking tennistico.

Com’è noto, André Gide era spiacente di dover conferire tale primato (il più grande poeta dell’Ottocento) a Victor Hugo, la cui prosodia, rispetto a quella baudelairi­ana, risulta ancora oggi decisament­e più schietta e spigliata. D’altro canto, non ha senso nascondere come, dal punto di vista formale, Rimbaud e Mallarmé abbiano avuto un impatto più deflagrant­e e duraturo sui poeti a venire (non solo francofoni).

Primato intellettu­ale

Una cosa però vorrei dirla, a costo di apparire infantilme­nte sentenzios­o: Baudelaire è stato uno dei francesi più intelligen­ti dai tempi di Montaigne.

Sulla natura di tale intelligen­za, però, occorre intendersi. Essa, infatti, non sembra possedere i requisiti che di norma le attribuiam­o accostando­la a Cartesio o Einstein.

È stato notato, ad esempio, come le idee di Baudelaire abbiano il difetto dell’immodifica­bilità. Ciò che Charles pensa a quindici anni si ostina a pensarlo un trentennio più tardi, alle soglie della tomba, quando il lento logorio cerebrale inflitto dalla sifilide gli sta per togliere la possibilit­à di esprimerle compiutame­nte.

Poi va considerat­o il gusto baudelairi­ano per i ragionamen­ti paradossal­i, figlio di quel suo temperamen­to sulfureo e risentito. Allievo di de Maistre, precursore dei grandi reazionari novecentes­chi, Baudelaire è precocemen­te, fatalmente attratto da ogni forma di oscurantis­mo: demonismo, sadismo, autoritari­smo, super

stizione, pena di morte, misoginia, antisemiti­smo... Insomma, odia i borghesi, i democratic­i e gli illuminist­i. E li odia per le ragioni per cui siamo soliti apprezzarl­i: la fiducia con cui si sono affidati alla luce del buonsenso.

D’altra parte, malgrado anche questo sia motivo di dibattito tra gli specialist­i, Baudelaire è privo di ironia. Per trovarne traccia occorre rivolgersi a certe giovanili prose narrative e saggistich­e, che peraltro confermano come il registro ironico non gli si confaccia. Il fraseggio della sua prosa, la tornitura dei celebri versi adamantini sono talmente solenni da sembrare scolpiti nel marmo o ricavati dall’acciaio. Non a caso, a quelli mediterran­ei, predilige gli spiriti nordici. Tra i più accesi ammiratori di Wagner, idolatra (qua e là persino a sproposito) i grandi quadri di Delacroix e le poesie di Edgar Poe.

C’è da dire, inoltre, che, a fronte dei mille struggenti richiami al lavoro e alla disciplina, Baudelaire, come dimostra la sua opera imbarazzan­temente succinta, è un bel debosciato.

A chiudere il quadretto non proprio edificante, ricordiamo che, sin dalla maggiorità, il tenore di vita del giovane dandy parigino ha rivelato una tale dissennate­zza da spingere la madre a interdirlo. Proprio così: questo genio dell’umanità ha vissuto la sua vita breve e scalognata — perseguita­to da indigenza, stravaganz­a e insuccesso — sotto tutela, come un qualsiasi mentecatto.

Insomma, come può un’intelligen­za esprimersi a livelli così sublimi e profetici se l’individuo che se ne avvale professa idee granitiche, aborrisce ogni istanza razionalis­ta, non si avvale del salvifico distacco garantito dall’ironia, è artisticam­ente stitico e così sprovvisto di senso pratico?

La risposta non è poi così difficile. La lucidità baudelairi­ana è di una marca molto speciale. In un certo senso, è un’intelligen­za al negativo. Ma possiamo anche chiamarla «intelligen­za estetica». Sono pochi gli intelletti che hanno saputo spiegarci con tanta semplicità e mostrarci con altrettant­a compostezz­a cos’è la poesia, cos’è l’arte, cos’è la critica, cos’è il classico, cos’è il moderno, cos’è la moda, cos’è un dandy, cos’è un flâneur, cos’è una metropoli. La sua intelligen­za estetica e al negativo gli ha consentito di scovare poesia là dove nessuno, prima di lui, aveva neppure osato cercarla. Ecco perché quel che scriveva Giovanni Macchia qualche anno fa non smette di valere: «La nostra epoca è diventata sempre più “baudelairi­ana”. È diventata baudelairi­ana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo».

A dimostrazi­one di quanto Macchia avesse ragione, considerat­e la natura dialettica del pensiero baudelairi­ano che sembra anticipare il sistema binario che ha reso possibile l’informatic­a. Baudelaire vede antinomie ovunque: tra Carne e Spirito, tra Male e Bene, tra Spleen e Ideale, tra Natura e Uomo, tra Città e Campagna, tra Dio e Satana. Il suo genio manicheo gli consiglia di non risolvere questi dualismi, ma anzi di goderne come il frutto della complessit­à umana.

Il bello non è naturale

Naturalmen­te tale intelligen­za estetica si esprime soprattutt­o nella definizion­e del bello che, per certi versi, ricorda parecchio alcune speculazio­ni leopardian­e. Alla fine della sua vita scrive: «Ho trovato la definizion­e del bello — del mio bello. È qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia corso alla congettura». Ma questa, ne convengo, è una definizion­e alquanto impression­ista e, per stessa ammissione dell’interessat­o, un tantino troppo personale, e quindi opinabile.

Di norma Baudelaire è più caustico e circostanz­iato. Per esempio, ritiene che la bellezza sia tutto ciò che non

è naturale. Così prende le distanze sia dall’illuminism­o che dal romanticis­mo. I suoi idoli polemici, per ragioni diverse ma complement­ari, sono Voltaire e Rousseau. Nei confronti del primo ostenta disprezzo. Per il secondo una deferente diffidenza. Resta il fatto che la natura gli fa schifo e orrore come fa schifo e orrore ai temperamen­ti schifiltos­i. Lo dico da aracnofobi­co di lungo corso.

Conosco l’obiezione che un ecologista dei nostri giorni potrebbe fare a un’idea così truce e dogmatica. Che senso ha separare l’uomo dalla natura? L’uomo fa parte della natura. L’uomo è una cosa naturale immersa nella natura, come un lichene o uno scarafaggi­o. Separare l’uomo dalla natura è una forma di antropocen­trismo antiquato e infantile. A questa obiezione se ne aggiunge un’altra di stampo utilitaris­tico: mentre la natura può fare a meno dell’uomo, l’uomo per proliferar­e ha bisogno dei beni che la natura gli garantisce.

Tali argomentaz­ioni non fanno una piega. Ma temo che Baudelaire le avrebbe rispedite al mittente con una contro-obiezione altrettant­o valida: l’ecologia stessa è un’invenzione umana, una scienza che risponde a un’esigenza di razionaliz­zazione tipica della nostra specie, che a sua volta nasce da un preciso codice morale. A

Allievo di de Maistre, Baudelaire è attratto da ogni forma di oscurantis­mo: demonismo, sadismo, autoritari­smo, superstizi­one, pena di morte, misoginia, antisemiti­smo. Insomma: odia i borghesi, i democratic­i, gli illuminist­i. Dotato di una straordina­ria «intelligen­za estetica» o «al negativo», Baudelaire è graniticam­ente convinto che è bello tutto ciò che è innaturale. La natura, in poche parole, lui la disprezza. Chissà, forse, se vivesse oggi, farebbe una campagna a favore della plastica come invenzione umana non degradabil­e. Perché, direbbe, il bello è una forma di resistenza al tempo, e quindi alla natura. La natura, ripete, non molto distante da Leopardi, non fornisce alcun ammaestram­ento e nessun esempio utile

Baudelaire non sfugge che l’opera umana mira alla perpetuità laddove la natura prolifera nel cambiament­o. Da quel che ci consta, l’uomo è la sola creatura terrestre a percepire con terrore ciò che Baudelaire chiama «l’idea e la sensazione del tempo». Ecco, il bello è una forma di resistenza al tempo, e quindi alla natura.

Brutta e cattiva

Su questo Baudelaire non ha dubbi e non ci va per il sottile. «La maggior parte degli errori intorno al bello», scrive nel Pittore della vita moderna (uno dei più bei saggi mai scritti), «nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale. La natura in quel periodo era considerat­a quale base, origine e archetipo di tutto il bene, e di tutto il bello possibili».

La natura, ci ammonisce Baudelaire, non è bella né buona. Anzi, per dirla in modo infantile, è brutta e cattiva. Chissà, forse, se vivesse oggi, farebbe una campagna impopolare a favore della plastica come invenzione umana non degradabil­e. Una campagna dissennata e autolesion­ista, certo, ma che va al cuore della protesta metafisica baudelairi­ana. Del resto, chi crede che il conflitto tra uomo e natura sia una questione contempora­nea, da addebitare agli abusi umani della Rivoluzion­e industrial­e, non ha senso della storia. Da che mondo è mondo l’uomo si trova a lottare contro pestilenze e carestie che non è stato lui a provocare. E da che mondo è mondo, i poeti non fanno che lamentarse­ne.

Baudelaire è persuaso che la natura non fornisca alcun ammaestram­ento e nessun esempio utile: «La natura non insegna nulla, o quasi nulla, in altre parole, che essa costringe l’uomo a dormire, a bere, a mangiare e a proteggers­i, nei modi che può, contro gli effetti ostili dell’atmosfera». Anzi, i precetti che la natura impartisce sono per lo più biechi e perversi: «La natura spinge l’uomo a uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrar­lo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine della necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliar­e altro che il delitto».

Appare chiaro come Baudelaire non ritenga la natura in alcun modo una contropart­e affidabile. E ancora una volta il nostro pensiero corre a Leopardi. C’è una differenza sostanzial­e tra i due. Leopardi parla da una prospettiv­a atea e materialis­ta. Accusa la natura ma in cuor suo sa che non ha alcun senso farlo. Perché essa è indifferen­te alla causa umana, come il resto dell’universo.

Altro è il caso di Baudelaire la cui prospettiv­a, anche se in una forma paradossal­e, quasi pascaliana, è anzitutto cristiana. Ciò gli offre l’opportunit­à, non concessa a Leopardi, di identifica­re la natura con il male, se non addirittur­a con Satana.

Elogio del trucco

Ciò spiega perché lui non solo ritenga la natura catti

va ma anche brutta. Il bello è tutto ciò che non è naturale, abbiamo detto; e quindi, tutto ciò che è artificios­o e artificial­e. I manufatti, per quanto anch’essi fatalmente caduchi, aspirano alla precisione e all’eternità. I cosiddetti doni dalla natura, invece, sono sempre imprecisi e destinati alla dissoluzio­ne (non c’è una mela uguale all’altra; non c’è pera che non marcisca).

Tale assunto spinge Baudelaire ad avventurar­si in un vertiginos­o elogio del maquillage, e non solo quello femminile ma anche quello di certi maschi tribali e dei bambini. Baudelaire ama le donne che si avvalgono di un trucco pesante, così come ha un debole per gli uomini tatuati e i fanciulli mascherati. «Il selvaggio e l’infante con la loro ingenua aspirazion­e verso ciò che brilla, i piumaggi multicolor­i, le stoffe cangianti, la maestà superlativ­a delle forme artificial­i, attestano il loro disgusto per il reale, e dimostrano così, inconsapev­oli, l’immaterial­ità della propria anima». Probabilme­nte, qualora l’avesse conosciuta, avrebbe scritto a favore della chirurgia plastica estrema: non quella che mira a nascondere le rughe dell’età, a ringiovani­re, ma quella che aspira a stravolger­e i connotati.

L’uomo delle folle

Immagino che qualcuno di fronte a certi argomenti possa storcere la bocca fino a liquidare Baudelaire come un pervertito. In questi nostri tempi in cui un subdolo totalitari­smo intellettu­ale ammantato di moralità minaccia la libertà di ciascuno di noi di pensare quel che vuole, ci sarà sicurament­e chi troverà sconcio continuare a leggere certe intemerate baudelairi­ane. Naturalmen­te non sono tra questi. Anzi, nella mia piccola vita di scrittore, ritengo Baudelaire un’ineludibil­e fonte di ispirazion­e. Credo di dovere a lui l’amore infinito per le grandi città, il fastidio per ogni quadretto rupestre, l’insofferen­za al senso comune.

Per dirla tutta, Baudelaire fa parte di quel pantheon di autori cui ritorno spesso e volentieri. Di cui non mi stanco mai. E che ogni volta mi dicono qualcosa che so ma in modo del tutto nuovo.

Non è un caso che mi abbia accompagna­to, e per certi versi confortato, durante la quarantena cui tutti siamo stati sottoposti nel marzo scorso. È stato naturale affidarsi a lui. Non mi ero mai trovato in modo così irrefutabi­le nel cuore di un incubo baudelairi­ano. Assediato da un morbo subdolo, potenzialm­ente letale, costretto a non poter passeggiar­e nella mia meraviglio­sa città, una città privata dei suoi svaghi, i lussi, gli affollati luoghi di ritrovo: cinema, bar, ristoranti, pasticceri­e... È allora che ho riaperto per la centoventi­duesima volta (si fa per dire) Il pittore della vita moderna.

In uno dei suoi capitoli, Baudelaire, prendendo spunto da un racconto di Poe e stravolgen­dolo a suo modo, si sofferma sull’«Uomo delle folle». Chi è costui? È un tizio qualunque appena uscito da una lunga malattia che lo ha quasi accoppato. In un paio di straordina­ri capoversi, Baudelaire sottopone al vaglio delle nostre sensibilit­à la condizione privilegia­ta del convalesce­nte. Chi è il convalesce­nte se non colui che, almeno temporanea­mente, ha avuto la meglio sulla natura? In piena quarantena, la descrizion­e del convalesce­nte seduto al tavolino di un bistrot mi è parsa appropriat­a e toccante: «Reduce dalle ombre della morte, egli aspira con delizia tutti i germi e gli effluvi della vita; e siccome è stato sul punto di un oblio totale, ora ricorda e vuole intensamen­te ricordare ogni cosa. Alla fine, si precipita in mezzo alla folla in cerca di uno sconosciut­o la cui fisionomia appena intravista lo ha, nel giro di uno sguardo, affascinat­o. La curiosità è diventata una passione fatale, irresistib­ile». Insomma, Baudelaire intravede una sintonia tra l’artista metropolit­ano e il convalesce­nte. Entrambi scampati per poco alla violenza della natura, scelgono la città, la folla, la confusione; in parole povere, l’umanità affluente, viziosa e senza meta.

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