Corriere della Sera - La Lettura
Ha tre radici il Dna europeo
Nel 2009 il genetista tedesco Johannes Krause trovò sulla sua scrivania un pacco contenente un frammento d’osso umano, una punta di falange. Il pacco arrivava da Novosibirsk, in Russia, mentre il campione era stato rinvenuto da un archeologo, Anatolij Derevjanko, in una grotta sui monti Altaj, nel cuore dell’Asia centrale. Krause — all’epoca un ricercatore del gruppo di Svante Pääbo, uno tra i genetisti più famosi del mondo — sottopose il frammento alle consuete procedure per sequenziare il
Dna senza troppo entusiasmo. Pensava di avere tra le mani qualcosa di noto, ma le successive analisi smentirono le sue ipotesi e, mesi dopo, attirarono le attenzioni della stampa mondiale. Infatti, quei resti di falange appartenevano a una giovane femmina vissuta 70 mila anni fa, facente parte di una specie del genere Homo fino ad allora sconosciuta, l’uomo di Denisova.
Quattro anni dopo quella sensazionale scoperta, il Max Planck Institute pose Krause a capo di un nuovo dipartimento, dove si iniziò a studiare una disciplina dal futuro radioso: l’archeogenetica. Polverizzando i resti ossei di antichi esseri umani, i genetisti sono in grado di leggere il Dna di individui vissuti migliaia di anni fa e di ricostruire, mediante il confronto con database e altri dati molecolari, le migrazioni intraprese dalle popolazioni del nostro passato.
Ma la portata rivoluzionaria dell’archeogenetica risiede soprattutto nell’integrazione della genetica con altre discipline, nel lavoro che scienziati in grado di analizzare i geni svolgono al fianco di archeologi, linguisti, persino storici.