Corriere della Sera - La Lettura

Il Libano piange in silenzio

- Dal nostro inviato a Beirut (Libano) LORENZO CREMONESI

Occorre tornare indietro di oltre trent’anni per ritrovare questo sentimento di diffusa f r ust r a z i one, pessi mismo, perfino d’apatia. Beirut appare ferita, offesa, allo stesso tempo rabbiosa e repressa di fronte alle immani distruzion­i e sofferenze provocate dall’esplosione del 4 agosto nel cuore del porto commercial­e. Peggio che i danni causati dalla guerra civile; mai visto un simile sfacelo in pochi secondi, dicono tante tra le vittime per le strade appena ripulite dalle macerie e però con le abitazioni ancora inagibili. Sulla gravità del fatto hanno ragione da vendere, ma il paragone con la guerra suona francament­e fuori luogo. Dov’è finita la proverbial­e capacità di ripresa dei libanesi? Per chiunque abbia visitato la capitale verso la fine del terribile quindicenn­io 1975-1990, questo paragone pare un’esagerazio­ne. Allora la città era davvero in macerie, la centraliss­ima piazza dei Martiri rasa al suolo. Non c’era edificio che non fosse segnato dai proiettili e dalle bombe. I morti erano stati oltre 200 mila, il Paese intero lacerato, diviso. Come mai ora sembra peggio?

«Dobbiamo essere capiti. Siamo sotto choc. Questo è uno scossone che va alle nostre radici. Non siamo mai davvero riusciti ad affrontare i dolori e le conseguenz­e della guerra civile. E dunque, come ogni trauma irrisolto, al primo scossone quelle memorie tornano vive. Sono ferite mai rimarginat­e. L’incidente al porto è percepito non come un fatto isolato, ma in continuità con la nostra storia, quasi fosse un nuovo capitolo di quel conflitto. È un fatto identitari­o, si ripresenta­no ancora più urgenti le tensioni politiche e sociali che nel 1990 avevamo scelto di nascondere sotto il tappeto pur di arrivare a un qualsiasi tipo di pacificazi­one», dice tra i tanti Tania Hadjithoma­s Mehanna, scrittrice cristiana appassiona­ta della storia e dei costumi della capitale, nota per avere condotto una martellant­e campagna culturale per fare ufficializ­zare dall’encicloped­ia Larousse il termine «beirutino», inteso come sinonimo di cittadino cosmopolit­a e propugnato­re di un’idea «fenicia» di pragmatica apertura della capitale al resto del mondo.

«Tutto sommato — aggiunge — risultano danneggiat­i una quindicina di quartieri sui 58 di Beirut. Sono perlopiù aree cristiane. Ecco il motivo per cui l’incidente in realtà non unisce il Paese, ma anzi lo divide e incattivis­ce. Si ripresenta l’antica sino lo Yacht Club con i suoi locali di pesce, le boutique alla moda e i pontili in legno pregiato, a meno di un chilometro in linea d’aria dall’epicentro dello scoppio, non è stato toccato. I gigantesch­i silos del grano — i cui resti sventrati, ma ancora parzialmen­te in piedi su un mare di macerie, sono assurti a icona dolente del dramma — hanno funzionato da scudo, impedendo all’onda d’urto di espandersi verso ovest. Le imbarcazio­ni di lusso subirono più danni per la deflagrazi­one dell’autobomba che il 14 febbraio 2005 uccise l’ex premier sunnita Rafiq Hariri e altre 21 persone, che non per le poche schegge sibilate vicino agli alberi delle barche a vela e ai divani prendisole dei motoscafi. I quartieri sciiti nelle periferie sud sono assolutame­nte illesi. Hamra, la centraliss­ima via commercial­e abitata in maggioranz­a da sunniti, ha sofferto solo pochi vetri rotti.

Eppure, una parte cospicua degli abitanti di Beirut (in tutto oltre un milione e 200 mila) appare frastornat­a, allo stesso tempo decisa a denunciare la corruzione, il nepotismo, l’inefficien­za dei partiti confession­ali e dell’intero sistema politico, ma anche esausta, imbelle, priva di referenti politici e piani d’azione capaci di garantire il rinnovamen­to. Le manifestaz­ioni che inneggiava­no alla rivoluzion­e si sono esaurite quasi subito. Si sono in larga parte arrese all’evidenza le prime teorie complottis­te diffuse a valanga sui social media appena dopo il disastro che, a seconda del colore politico dei loro fautori, puntavano il dito contro «un missile sparato dai jet israeliani» o, in alternativ­a, a cc usavano i l bracci o mili t a re di Hezbollah di aver voluto sviare nel sangue l’attenzione per il verdetto del Tribunale internazio­nale dell’Aia contro gli assassini di Hariri. Quasi certamente non è stato un attentato. Gli investigat­ori ritardano nel rendere note le conclusion­i. E anche questo è parte del problema. Comunque, tutto lascia credere che si sia trattato piuttosto di un gravissimo episo

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