Corriere della Sera - La Lettura
Il sogno dell’eternità
Le grandi sfide ecologiche e dell’editing genetico, con la necessità di ricucire il rapporto tra ricerca e società, al centro del festival
In ogni istante dello sviluppo e poi della vita adulta, miliardi di cellule si duplicano alacremente, scolpendo letteralmente il nostro corpo. Per avere una scultura, però, non basta aggiungere, bisogna anche togliere. Così dopo un certo numero di divisioni, solitamente una quarantina, e dopo avere generato milioni e persino miliardi di figlie, la cellula madre invecchia, smette di duplicarsi e muore. Se dunque scoprissimo il meccanismo della senescenza cellulare e imparassimo a bloccarlo, diventeremmo immortali?
Il sogno dell’eternità ci accompagna da sempre, ma può essere pericoloso. In natura esistono in effetti cellule immortali che si duplicano indefinitamente. Quelle prelevate nel 1951 (a sua insaputa) dal cancro alla cervice di Henrietta Lacks, un’operaia afroamericana, si stanno moltiplicando ancora adesso e sono diventate una linea cellulare brevettata e diffusa in tutto il mondo per esperimenti che hanno fatto la storia della medicina. Le cellule di Henrietta non smettono mai di proliferare. Basta tenerle in coltura, senza nemmeno troppi riguardi, e loro si moltiplicano. I biologi hanno calcolato che adesso dovrebbero essercene nei laboratori di tutto il mondo circa cinquanta milioni di tonnellate.
Quelle cellule sfidano la morte perché si dividono ancora e ancora, come all’inizio, ma appunto sono le cellule, geneticamente alterate, di un tumore aggressivo. Non è esattamente un’immortalità desiderabile. Come scrive l’oncologo Pier Paolo Di Fiore nel suo ultimo intenso libro, Il prezzo dell’immortalità (il Saggiatore), l’essenza del cancro risiede proprio in una folle corsa verso l’illusione dell’immortalità: una singola cellula va «a prendersi il sogno proibito dell’immortalità», a caro prezzo per la salute del collettivo multicellulare di cui fa parte, cioè il nostro corpo.
Immortali sanno essere non solo le cellule tumorali, ma anche quelle staminali e di alcuni organismi che si rigenerano continuamente. Come ci riescono? Oggi lo sappiamo: rallentano l’accorciamento progressivo delle parti terminali dei cromosomi. In pratica, bloccano l’orologio molecolare dell’invecchiamento che sta dentro ogni cellula. A ogni divisione, infatti, il filamento di Dna si accorcia di un pezzettino. Per bilanciare queste defezioni, alle estremità dei cromosomi ci sono cappucci di Dna aggiuntivo (detti telomeri) che li proteggono, ma che anch’essi si accorciano gradualmente a ogni duplicazione, fino a consumarsi.
Le cellule che fermano l’invecchiamento (per esempio i nostri gameti) mettono in azione un enzima, la telomerasi, che ripristina ogni volta i telomeri: ecco servite le basi molecolari della lotta tra mortalità e immortalità. Dobbiamo questa scoperta fondamentale alle intuizioni, settant’anni fa, di una scienziata eterodossa, Barbara McClintock (poi Nobel per la Medicina nel 1983), riprese quarant’anni dopo in California dalla biologa australiana Elizabeth Blackburn (ospite in collegamento il 3 ottobre di BergamoScienza), dalla sua allieva Carol Greider, nonché dal genetista Jack Szostak (anch’egli ospite del festival). I tre insieme ricevettero un meritatissimo Nobel per la Medicina nel 2009.
Se aggiungiamo telomerasi a cellule che non ne hanno, l’invecchiamento rallenta. Abbiamo scoperto l’elisir di lunga vita? Non proprio. «Telomeri corti, vita breve» è un’equazione un po’ troppo semplice. Blackburn suggerisce di diffidare dei venditori di pillole e di creme che promettono di allungarci i telomeri. Tuttavia, dati convincenti legano la salute dei nostri cappucci di Dna allo stile di vita: ridurre lo stress cronico, mangiare sano, fare esercizio, dormire bene e avere relazioni sociali positive sono buone abitudini che favoriscono l’attività della telomerasi e la salute dei telomeri. Al contrario, fumo, alcol e traumi accorciano i telomeri. A dire il vero, che l’essere felici allungasse la vita lo sospettavano già in