Corriere della Sera - La Lettura
Le poesie di Williams No, le poesie di Stoner
Un singolare caso editoriale ha portato contemporaneamente in libreria l’opera poetica di due grandissimi prosatori del Novecento: è uscita da Crocetti la traduzione di Sotto il ferro della luna, raccolta di liriche pubblicata nel 1958 dal giovane Thomas Bernhard; la nuova edizione Mondadori di Stoner è arricchita da La necessaria menzogna, un libro di poesie pubblicato da John Williams nel 1965, lo stesso anno del capolavoro.
L’accostamento fortuito di due scrittori inconciliabili come Bernhard e Williams vale solo a ricordarci quanto siano rari i grandi narratori ambidestri, se mi si passa il termine, ovvero capaci di scrivere versi davvero memorabili, capaci di rappresentare una tappa significativa del loro cammino. Non si può dire altrettanto dei poeti moderni, che fin da Baudelaire hanno scritto prosa di altissimo livello. Non so spiegarmi il fenomeno. Forse il prosatore si è scelto una matrigna troppo esigente e gelosa, che nella sua apparente informità chiede sempre di investire (come disse una volta Truman Capote) nella singola pagina tutto ciò che si è imparato dai libri e dalla vita, lasciando poco spazio ad altre avventure.
Fatto sta che se per assurdo ci fossero rimaste solo le poesie di Bernhard e di Williams, difficilmente staremo qui a parlarne, perché difficilmente qualcuno si sarebbe preso la briga di tradurle e ristamparle. Non sono certo brutte poesie, perché né lo scrittore austriaco né quello texano erano persone inclini a vani esperimenti. Ma è come se, ognuno a suo modo, avessero immerso e annegato i loro versi nel grande mare dello stile moderno, dando l’impressione di godere della libertà condizionata degli epigoni: proprio loro che tante volte ci hanno lasciato a bocca aperta perché sono stati i primi a dire una certa cosa in un certo modo.
Mi colpiscono alcune affermazioni dell’introduzione di Stefano Tummolini, a cui si deve la bellissima traduzione di Stoner uscita da Fazi nel 2012 e adesso ripresa da Mondadori. La prima impressione del traduttore è di stupore: come è possibile che la stessa persona abbia firmato Stoner e La necessaria menzogna? «A una prima lettura — confessa Tummolini — sembra impossibile riconoscere la stessa mano dietro ai due lavori. Tanto cristallina è la chiarezza della prosa, quanto concettosi appaiono i versi». Il traduttore poi ha anche modo di ricredersi, ma in queste delicate materie, ahimè, la prima impressione ha un peso che non si può disprezzare. Williams in effetti fatica a districarsi da pesanti modelli, T. S. Eliot e Wallace Stevens prima di tutti, e soprattutto dal secondo eredita un pericoloso gusto dell’astrazione, del concetto ben distillato ma esangue. Williams non manca certo, d’altra parte, di doti personali, come il senso architettonico della composizione, o quella classica nobiltà del dettato che nella prosa gli ha consentito di raggiungere vette come le ultime righe di Stoner.
Sempre al grande romanzo si torna a pensare, leggendo le poesie di Williams, tanto che questa intelligente idea editoriale di stampare insieme entrambi i libri del 1965 finisce per generare una strana illusione, ovvero di leggere non le poesie di John Williams, ma quelle del suo indimenticabile eroe, William Stoner. Anche perché, come tutti i lettori di Stoner ricordano bene, la poesia svolge nel romanzo un ruolo fondamentale, nel senso che orienta in maniera decisiva e irreversibile il destino del protagonista, figlio di poveri contadini che aveva cominciato a studiare Agraria all’università per poi diventare un professore di Letteratura. Il suo incontro, durante una lezione, con il sonetto LXXIII di Shakespeare è una «conversione», come ha ben spiegato in un suo saggio Barbara Carnevali ( Stoner. La grammatica della vita, Fazi, 2015). E al momento della morte, che ispirò a Williams quelle che indubbiamente sono le sue pagine più belle e commoventi, Stoner tiene in mano l’unico libro che ha pubblicato nella vita, una dissertazione sull’influenza della tradizione classica sulla poesia medievale.
Non si tratta semplicemente di un gusto, di sapore inattuale e forse un po’ pedante. Il classicismo di Stoner, il suo profondo rispetto delle regole formali e del significato esatto di ogni parola, è una forma di moralità, un criterio ideale sul quale misurare le imperfezioni e i fallimenti della vita. Quello che Stoner cerca e trova nei poeti latini o rinascimentali è un filo d’Arianna nel labirinto dell’esperienza. È un mondo certamente ideale, ma all’interno del quale la fragilità e l’approssimazione dell’umano raggiungono la loro misura, la loro trasparente dignità.
Privo di interessi politici e di forti ambizioni personali, ma anche di fede religiosa, l’antiromantico Stoner è un uomo che è riuscito a consacrarsi totalmente all’unica rivelazione adatta alla sua integrità di essere umano. E l’amore per la poesia è la sua spina dorsale, la camera di compensazione tra lo spazio interiore e il mondo esterno.
Pochi romanzieri hanno saputo esprimere in modo così credibile e appassionante il significato umano di una scelta di vita in apparenza così priva di seduzione narrativa. Non saranno le poesie di Stoner, quelle che leggiamo in questa nuova edizione, ma di sicuro La necessaria menzogna getta nuova luce sul capolavoro, che è uno di quei libri che si prestano a molteplici riletture e che ogni volta sembrano tenere ancora in serbo un ulteriore livello di senso. Quello che Stoner e Williams hanno in comune al mass i mo g r a do è u n’ i de a a l t i s s i ma de l - l’espressione letteraria, e di quel vincolo tra bellezza e verità che si rinsalda ogni volta che le parole danno una forma credibile a un aspetto del mondo che in nessun altro modo poteva essere compreso e pronunciato. Non saprei dire se si può collocare precisamente Stoner nel genere della narrativa «autobiografica», ma di sicuro, leggendo La necessaria menzogna, possiamo constatare quanto coincidessero le idee dello scrittore e del suo personaggio più celebre sulla letteratura e sul suo ruolo nel gioco della vita.