Corriere della Sera - La Lettura
La morte è (ancora) il mio mestiere
non è solo (un gigantesco detective), non è solo (un grande avvocato): Michael Connelly è stato — ed è di nuovo — un giornalista di razza. L’eroe del «Poeta» è tornato. Evviva
McEvoy è tornato. Più disincantato, forse. O solamente più maturo. Ha una vecchia jeep e ha superato i cinquant’anni; un passato ingombrante e un futuro più o meno precario. La stoffa del cronista di nera, però, è rimasta intatta. Purissima. Anche se non scrive più per il «Los Angeles Times» o «Velvet Coffin» e adesso lavora per il sito a tutela del consumatore «FairWarning», è rimasto lo stesso mastino che ha esordito nel 1996 in un romanzo straordinario, Il poeta. Eccolo di nuovo allora, giornalista solo in apparenza in dismissione, che questa volta muove le sue indagini nei traffici di Dna e nel dark web trovando serial killer, vecchi amori e vecchi rancori. La morte è (ancora) il suo «battito » (beat nell’originale). E sicuramente è quello del suo creatore Michael Connelly, formidabile burattinaio di personaggi seriali, incredibile regista di storie mozzafiato. Come questa. La morte è il mio mestiere. Appunto.
La trama e una premessa: il romanzo (tradotto da Alfredo Colitto per Piemme) si può tranquillamente affrontare senza conoscere il passato di Jack, che ora si occupa di truffe ai danni dei cittadini. Resta pur sempre un reporter, anche se il suo lavoro sembra procedere in modo più tranquillo rispetto a una volta. Almeno finché Tina Portrero, conosciuta un anno prima e compagna di una sola notte, viene trovata senza vita. Dislocazione atlanto-occipitale: le hanno spezzato il collo. E visto che per colpa di quell’incontro occasionale McEvoy rientra nel giro dei sospettati, a quel punto non può fare altro che tornare a indagare (con il disappunto degli investigatori e del suo editore e direttore, Myron Levin). Quello che trova è spaventoso: l’omicidio è collegato ad altre morti misteriose in tutto il Paese, ha a che fare con uno maniaco che seleziona le sue vittime in base ai loro dati genetici.
Cercando indizi, rischiando (parecchio), il giornalista entra nel web più oscuro, si insinua nel mercato «senza frontiere» del Dna — trova un sito che garantisce analisi per 23 dollari — si addentra nei vuoti di una legge, quella sui dati genetici, ancora da scrivere. Fa domande. Anticipa le mosse degli sbirri con l’aiuto di una vecchia conoscenza, l’ex agente dell’Fbi Rachel Walling, profiler sopraffina. Va a fondo. In una delle storie più fosche della narrativa connellyana.
Visione e comprensione del presente, la capacità di Connelly di osservare la realtà è nota. In La morte è il mio mestiere l’assassino guida una Tesla; il web è popolato da hacker pronti a tutto e da incel (unione dei termini involuntary e celibate), «persone che praticano il celibato loro malgrado, tipi molto inquietanti». Sembra che l’autore scriva in tempo reale. Soprattutto quando parla di giornalismo, di campagne create ad arte contro l’informazione seria, verificata, onesta. Di manipolazioni (e si capisce chiaramente cosa voterà Connelly a novembre). «Non era un buon periodo — racconta McEvoy — per fare il giornalista. Era l’epoca delle fake news e dei reporter etichettati da chi era al potere come nemici del popolo. I giornali chiudevano a destra e a manca, e alcuni sostenevano che l’industria della stampa fosse entrata in una spirale di morte. Nel frattempo, il giornalismo fazioso era aumentato, nascevano siti che diffondevano notizie non controllate e il confine tra il giornalismo imparziale e quello di parte si faceva sempre più labile». È l’oggi più vero. A cui si unisce una vecchia e sapiente capacità di scrittura: suspense e ritmo.
«A FairWarning la morte non era più stata il mio mestiere. Fino a ora», riflette Jack. È impossibile allora non ricordare l’incipit del Poeta: «La morte è il mio mestiere, ci guadagno da vivere, ci costruisco la mia reputazione professionale». Era il millennio scorso, le ricerche sul genoma e gli smartphone sembravano fantascienza. Ma con la sua ostinazione e il suo metodo — quelli non sono cambiati — quel reporter cocciuto entrò nel cuore dei lettori. È tornato altre volte, protagon i s t a d e l l ’ Uomo di paglia del 2009, «comparsa» nel Buio oltre la notte, indagine di Harry Bosch del 2001, e ancora in La lista, caso dell’avvocato Mickey Haller — il fratellastro di Bosch — datato 2008. Sembra difficile seguire tutti i passaggi, ma è solo un’impressione: disinvolto e sicuro, Michael Connelly gioca con i suoi personaggi seriali (Rachel compresa, grande amore di Jack), li fa incontrare, invecchiare, collaborare. Li adora e si vede. Ed è stato lui stesso ad ammettere (in un’intervista al «Los Angeles Times», il giornale per cui è stato crime reporter fino al 1993) l’urgenza di riportare su carta il suo migliore cronista: «Ci sono forze, oggi, che cercano di screditare la professione del giornalista, ecco perché ho capito che volevo tornare a scrivere di McEvoy, un uomo fiero che vuole trovare la verità nascosta». In un crescendo di tensione: tra l’interesse dell’indagine e quello del lettore a cui Jack si rivolge; tra le mosse per risolvere il caso e le loro conseguenze, a volte irreparabili. Sapersi fermare o superare certi limiti? Forse per questo Connelly riesce a raccontarlo così bene: al di là del «mito Bosch», McEvoy è quanto di più simile a lui.
Il titolo originale di La morte è il mio mestiere è Fair Warning, come il sito per cui McEvoy lavora. «Giusto avvertimento» significa. Quel sito esiste davvero (fairwarning.org), si tratta di un’associazione non profit. Come esiste in carne e ossa Myron Levin, il fondatore e direttore di «FairWarning» che nel romanzo passa il tempo al telefono per raccogliere finanziamenti (ma posa la cornetta quando c’è da difendere Jack e la libertà di stampa). «Non aveva quasi mai il tempo di fare il giornalista, anche se gli sarebbe piaciuto. Ma quando ci si metteva, diventava uno dei più implacabili reporter che avessi mai conosciuto». «Ovviamente — ha scherzato Connelly — gli ho chiesto l’autorizzazione per inserirlo nel libro con il suo nome vero. E quando gli ho spedito il manoscritto del romanzo me lo ha restituito con brevi suggerimenti su come si lavora in redazione». Non ha cambiato nulla del suo personaggio, «l’ho preso come un buon segno».
Laboratori di biochimica che sfruttano le debolezze di chi si rivolge a loro cercando un passato, il wild West del Dna, uomini che odiano le donne, rivalità tra giornalisti e agenti dell’Fbi, un amore perduto (o ritrovato), un omicida che si fa chiamare l’Averla (un uccello predatore ferocissimo) e che commette un solo errore nel suo implacabile sistema di morte, una giovane che si è salvata ma a che prezzo: comunica solo attraverso una macchina. Pietas e crimine, azione e deduzione, privacy ed etica: il canone del thriller è rispettato, Connelly non sbaglia neanche questa volta, e non è un caso che abbia appena concluso un contratto con Compelling Pictures per trasformare La morte è il mio mestiere in un film. Lo scrittore firmerà la sceneggiatura. Un altro mestiere che gli riesce benissimo.