Corriere della Sera - La Lettura
Ho scritto dieci romanzi prima di imparare a parlare
Santiago Amigorena, nato in Argentina, andò esule in Francia da ragazzino per scappare dalle dittature. La sua opera, spiega, è l’epopea del proprio silenzio. I lettori italiani cominceranno a conoscerlo dal fondo: la storia del nonno, ebreo a Buenos Aires, che inizia a tacere nel 1940 quando scopre che cosa accade alla madre, rimasta nel ghetto di Varsavia
«Il problema è che passo il tempo a parlare per dire che sono silenzioso, è un bel paradosso», dice Santiago Amigorena ridendo, a metà della conversazione, mentre ripercorre il progetto letterario cominciato nel 1992. «È una sorta di riscrittura della Ricerca del tempo perduto, a partire della mia vita e non di quella di Marcel Proust: in 6 parti, che coprono grosso modo 6 anni ciascuna, racconto l’esistenza di un essere umano, che si chiama Santiago Amigorena come me e che, siccome non parla, scrive. A trent’anni decide di scrivere tutto ma con l’obiettivo di smettere, a differenza di Proust. Scrive con lo scopo di combattere il silenzio, per arrivare al punto in cui potrà finalmente cominciare a parlare». A questo progetto sul silenzio Amigorena, nato 58 anni fa a Buenos Aires, ha già dedicato 9 libri e il decimo, Il ghetto interiore, è stato pubblicato in questi giorni in Italia per Neri Pozza, dopo avere vinto il Premio Goncourt - La scelta dell’Italia (i giurati sono gli studenti dei licei Esabac, il doppio diploma Baccalauréat francese- maturità italiana).
Il ghetto interiore ha come protagonista il nonno di Santiago Amigorena, Vicente Rosenberg, «un giovane ebreo. O un giovane polacco. O un giovane argentino. In realtà, quel 13 settembre 1940 a Buenos Aires, Vicente non sapeva ancora di preciso chi fosse». Per sfuggire all’antisemitismo, nel 1928 Vicente ha lasciato la Polonia, dove però è rimasta la madre. A Buenos Aires ha sposato Rosita, figlia di ebrei russi, ha avuto tre figli e fatto fortuna aprendo un negozio di mobili. In quegli anni Buenos Aires è ricca e spensierata, tanto quanto l’Europa è devastata dalla guerra. Ma le lettere della madre dal ghetto di Varsavia, sempre più drammatiche, rompono la serenità di Vicente. Il marito e padre affettuoso capisce quello che sua madre e gli altri ebrei stanno per subire, avverte lo sterminio a venire e non trova più alcuna parola che possa essere pronunciata senza cadere nel grottesco, nell’incongruo. Smette di parlare. Così il silenzio entra nella storia famigliare di Santiago Amigorena.
Quale posto ha «Il ghetto interiore» nel suo progetto sul silenzio? I lettori italiani si orienteranno cominciando il percorso dal decimo libro?
«Credo di sì perché questo romanzo è una sorta di introduzione agli altri. Non parla della vita di Santiago Amigorena ma di come per la prima volta il silenzio è entrato nella mia famiglia, molto prima che nascessi».
È un libro sulla Shoah?
«Non solo. È un libro sulla parola, sul suo potere e la sua impossibilità, e anche sulla questione delle identità multiple. Su che cosa significa essere o sentirsi ebrei, o argentini, o francesi, italiani...».
Lei che cosa si sente?
«Francese quando scrivo, argentino quando guardo il calcio in televisione... E poi padre quando bado ai miei figli, marito quando sto con mia moglie, amante del vino quando scelgo una bottiglia di vino naturale all’enoteca qui di fronte. C’è un aneddoto che ho sentito raccontare una volta da Giorgio Agamben: riguarda il poeta spagnolo Rafael Alberti che nel 1936 o nel 1937 andò negli Usa a cercare aiuti per la causa repubblicana. Con lui c’era un altro poeta che non era affatto comunista. Ma di fronte all’interrogatorio insistente dei doganieri americani, finì per dichiararsi tale, quasi per dispetto. E in fondo Vicente, nel mio libro, si pone la questione di essere ebreo per reazione, perché vi è costretto dai nazisti. Io di solito non mi sento particolarmente ebreo, anche se lo sono, mia madre è ebrea. Non sento un particolare attaccamento a Israele. Ma di fronte a un atto di antisemitismo sono ebreo. E mi sento anche arabo quando sento qualcuno trattato da “sporco arabo” per la strada».
Lei ha fatto il percorso inverso rispetto a suo nonno. Vicente Rosenberg lasciò l’Europa per sfuggire all’antisemitismo, Santiago Amigorena è tornato in Europa per sfuggire alle dittature latinoamericane.
«È così. Sono arrivato in Francia con i miei genitori nel 1973, quando avevo 12 anni, ma per noi non è stato un vero ritorno: eravamo una famiglia argentina, Parigi era un luogo lontano, molto diver
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