Corriere della Sera - La Lettura
Per crescere devi tornare indietro
Nel romanzo d’esordio Marta Zura-Puntaroni toccava il tema della depressione, qui affronta l’Alzheimer di una nonna dal carattere pessimo. Nel paese natale la protagonista si confronta con la madre e prende coscienza di sé
C’è ancora una volta la malattia nella narrativa di Marta Zura-Puntaroni. Nell’esordio, Grande Era Onirica, la protagonista Marta, specchio dell’autrice, affrontava con andamento romanzato la propria depressione. In Noi non abbiamo colpa centrale è l’Alzheimer, che ha colpito nonna Carlantonia, figura portante del romanzo, mentre solo a fine romanzo s’affaccerà un nodulo al seno della coprotagonista, la madre Antea. Situazioni con le quali si trova a «volersi» misurare sempre una Marta trentenne che risiede a Milano, dove le sue sole amicizie sono vecchietti del condominio e del quartiere, in una solidarietà propria delle rispettive fragilità, e che ha scelto di poter «svolgere la propria attività in piena autonomia organizzativa e senza alcun vincolo di subordinazione, né di luogo, né di orario». Ciò le consente di tornare a casa, nelle Marche, proprio perché «mia nonna sta male».
Ed è un romanzo al femminile (marginali le figure di nonno Renato e papà Luigi), imperniato sull’incrocio generazionale tra figlia, madre e nonna, in un racconto diretto nel raccontare i differenti rapporti tra Marta e nonna e Marta e la madre, e mediato dalla figlia in quello tra madre e nonna. Che è momento a sua volta centrale, misurandosi Marta col senso di colpa che la madre nutre verso la nonna all’idea sia «di non stare» sia di «non voler stare tutto il giorno insieme a lei», conseguenti alle scelte contrarie ai desideri di quella figura matriarcale, decidendo di laurearsi in Medicina: un tipo di decisione che Marta ripeterà a sua volta nei confronti di Antea preferendo Lettere a Medicina. E ne vengono figure incisive: più per forza d’immagine, la nonna; per quel suo continuo dubitare, la madre Antea, il cui lavoro di dentista le sottrae il tempo da dedicare alla madre, in costante aggravamento nel suo Alzheimer, sì da doversi affidare alle badanti, fagocitate da Carlantonia col suo caratteraccio.
Questa dunque la situazione centrale del romanzo: che prende avvio dal ritorno a casa di Marta a dare una mano a un’Antea che avverte i segni della vecchiaia e prende coscienza delle proprie debolezze, per gestire quella nonna che l’«ha cresciuta», tanto più che la sorella Laura se ne sottrae. Gestione per nulla semplice: Carlantonia, dalla «faccia da bertuccia scaltra, carattere spigoloso, i denti a tenaglia», pur devastata dall’Alzheimer conserva il carattere forte e autoritario di chi è «sempre stata convinta di essere l’unica capace di fare ogni cosa come si deve» e «mai è stata una persona gradevole»; e che «fa tutte le bizze che facevo io da bambina», conservando «le basi del suo carattere — la scontentezza, la tirchieria, l’indifferenza, la freddezza».
Il ritorno coincide per Marta con una presa di coscienza di quel paese dal quale era fuggita e di cui si riscopre «cellula». E una presa di coscienza personale: quella maturità che aveva cercato altrove si realizza proprio con la sua disponibilità verso gli altri e soprattutto con questo ritorno. Di qui il suo crescente rispecchiarsi in Carlantonia e Antea con domande sul proprio futuro; un riflettere sul proprio destino speculare al presente rappresentato da nonna e mamma. Da qui nasce una riflessione su quel «noi non abbiamo colpa» conseguente a un «non abbiamo chiesto noi di venire al mondo».
Di fatto Marta si riappropria di sé, in un racconto che si muove tra presente e momenti dell’infanzia. Di qui l’affacciarsi nel romanzo di quelle figure maschili, ma pure di altre figure femminili, a loro volta memorabili: dalla zia Cecilia coi suoi esorcismi alla nonna paterna Nannina che, vedova a quarant’anni, ha pensato solo a divertirsi, sempre disinteressandosi delle nipoti; alle 4 badanti col loro mondo; mentre più sfuocate restano la sorella e le amiche di gioventù (stona Sonia che, smarritasi nella droga, riappare redenta nel finale, in autogrill). Ed è per questa via che la narrazione si fa romanzo di ricordi: di Marta, grazie ai quali vive la nonna della sua gioventù. Quei ricordi che vengono meno nella ansiosa Antea. Ma, proprio perché ricordi, ciò che li veicola; profumi di ieri oggi tradottisi in «odore di vecchio»; e i colori; e le parole, soprattutto di nonna: come le storie che le narrava, ma pure quei saperi che non voleva condividere per conservare a se stessa l’autorevolezza del fare.
Un narrare più sciolto e di più sicuro possesso linguistico e stilistico rispetto al romanzo d’esordio. Con un buon giostrarsi anche nelle divagazioni, anche se appesantite in vari casi dal gusto della spiegazione e dell’elencazione.