Corriere della Sera - La Lettura
C’era un ragazzo come me che preferiva essere cattivo
Sin dal titolo, Solo un ragazzo, Elena Varvello chiarisce il tema del suo romanzo e lo inserisce in un preciso genere o tipologia di narrazione che, ricalcando il titolo di un bel saggio di Elisabetta Mondello edito da Perrone, mette al centro «l’età difficile». La letteratura italiana del secondo dopoguerra, secondo Mondello, è attraversata da opere che indagano la realtà dell’adolescenza; da Alberto Moravia a Elsa Morante, da Pier Paolo Pasolini a Lalla Romano molti sono stati gli autori che hanno avuto a che fare con i ragazzi, e a questi si possono aggiungere l’Enrico Brizzi di Jack Frusciante o alcuni romanzi di Niccolò Ammaniti. Varvello s’inserisce in questo campo letterario, come già per il precedente La vita felice, portando con sé, però, un sostrato kinghiano (il racconto lungo Il corpo o il romanzo It) che la rende nuova rispetto ai predecessori. Per Varvello, seguendo Stephen King, l’entrata nell’adolescenza è subire una profanazione, come se il mondo, l’equilibrato universo dell’infanzia, si rompesse in mille pezzi; un trauma e un dolore che nulla pare guarire e che niente può rendere più sopportabile.
Il ragazzo protagonista del romanzo della scrittrice torinese esperisce tale deflagrazione e rottura, e quasi senza comprenderne i motivi inizia a compiere una serie di atti criminosi, quasi che al male interiore dovesse in qualche modo corrispondere un male concreto verso gli altri; non c’è nessuna ragione o spiegazione per quest’agire, se non il fatto che ogni evento accade, perché il ragazzo è un ragazzo e la sua vita è fuori di sesto.
L’abilità di Varvello sta nel non indulgere in moralismi o spiegazioni gnomiche ma nel presentare l’esistenza del suo protagonista, i suoi gesti e le parole, dove la rabbia si mescola a una tenerezza e a disperazione che non ha pari. L’autrice suggerisce che l’adolescenza, quella linea d’ombra conradiana che tutti hanno dovuto — o dovranno — attraversare, è un mistero che non può essere esplicato in nessun modo, ma contemplato mentre avviene; una convinzione che diventa scelta stilistica, anche, a partire dall’epigrafe, un verso di Emily Dickinson: « Tell all the truth but tell it slant »: la scrittura non può che dire la verità, ma questa deve essere affermata, appunto, in modo «obliquo». L’assioma si riverbera su ogni scelta del testo: la prima e più evidente è non nominare mai il nome del ragazzo, come se rappresentasse non tanto una presenza reale, quanto una funzione del mondo. La storia della sua vita, delle sue azioni, viene vista da punti di vista diversi, quello dei suoi genitori e delle sorelle.
Solo un ragazzo, però, non è un romanzo corale, il punto di vista rimane ben fermo. La voce narrante è una terza persona onnisciente, che però appunto decide di raccontare questa vicenda di traverso, indagando più le conseguenze che le azioni. È questa una scelta felice, perché dà la possibilità alla lingua della Varvello di lavorare sulla reticenza, sul non detto, sulla sospensione con la creazione di una sorta di sentimento di epoché, di sospensione del giudizio, che è la cifra stilistica del romanzo. La realtà per la scrittrice è un fitto intrico di azioni e relazioni: ogni personaggio viene espresso dalle azioni che compie e da quelle gli altri fanno in sua presenza, entriamo nell’intimo dei protagonisti senza entrare nella loro testa, senza seguire psicologismi, ma semplicemente vedendo il modo in cui tengono in mano o fanno cadere una confezione di pasta dallo scaffale o dal modo in cui si prendono cura di una piccola pianta in un vaso sul davanzale.
In questo modo Varvello governa una materia che si sarebbe potuta prestare moltissimo al patetismo e al tentativo di commuovere e consolare il lettore, mentre ci consegna il resoconto limpido di un disagio che ognuno vive a proprio modo e che non si può comprendere ma, semplicemente, accettare per il fatto che è accaduto. In questo senso la parabola esistenziale più riuscita è quella del padre, dove l’autrice trova la giusta misura tra la prosa piena di non detti, di frasi fatte cadere nel mezzo di una conversazione e l’indagine di un uomo scisso tra la volontà di amare la propria moglie, ormai un’ombra di sé, e il bisogno di sopravvivere a tutto questo dolore, fino alla conclusione di una maturità e di un equilibrio raggiunti sul finire della vita: una sorta di serena rassegnazione.
In queste pagine Varvello acquisisce precisione nella descrizione di gesti carichi di senso: «Pietro alzerà la sua [mano], per ricambiare. Lo farà gentilmente, nell’aria della sera, poi scuoterà la testa. Aprile, il fiume in lontananza. E tutto sarà stato perdonato». La scrittura mostra, più che enunciare, e nel frasi il gesto diventa una epifania del perdono e della pietas che attraversa tutto il romanzo.