Corriere della Sera - La Lettura
Tutti i colori di Vincent van
La follia? L’imprevedibilità? La solitudine? Una mostra a Padova, la più grande mai dedicata in Italia al pittore, aiuta a smontare molti luoghi comuni e a ridefinire il percorso artistico di un talento diventato ostaggio del suo clamoroso successo postumo. «La Lettura» ha assistito con il curatore Marco Goldin all’allestimento
Fragile. Handle with care/ Maneggiare con cura. Proprio come bisognerebbe fare (finalmente) con Vincent van Gogh, prototipo universale dell’artista di genio, ma anche di una certa idea d’ispirazione legata all’imprevedibilità, alla solitudine, a una «presunta» pazzia. Questo invitano a fare le parole stampate come un mantra sulle casse modello Turtle (brevetto olandese) che da tutto il mondo stanno trasportando a Padova le opere del pittore in mostra dal 10 ottobre al Centro San Gaetano.
«È la più grande esposizione mai dedicata all’artista in Italia», spiega con orgoglio il curatore Marco Goldin, fresco autore (per La nave di Teseo) anche di Van Gogh. L’autobiografia mai scritta, monumentale percorso che ridisegna, in parallelo con la mostra, l’esistenza del pittore attraverso le sue lettere: quelle indirizzate da Vincent al fratello Theo e quelle che lo stesso Theo e alcuni amici (da Gauguin a Signac) gli hanno nel tempo scritto.
Un itinerario caratterizzato da una lunga serie di inediti e di scoperte e da una traduzione finalmente attualizzata. Il motivo? «Dimostrare che Vincent non era pazzo, al massimo potremmo dire che era molto malinconico — precisa Goldin — e che non era nemmeno un ignorante: parlava correntemente quattro lingue e amava molto la poesia del quasi coetaneo Walt Whitman. Insomma il suo talento era molto piu profondo di quanto il successo di cui ha goduto e continua a godere ci abbia finora fatto capire».
Nelle otto sale andrà in scena l’altra faccia di un genio, quella più nascosta, quella che una certa forma di snobismo intellettuale ha fatto a lungo rimanere nell’ombra. Poco meno di cento quadri (96 per la precisione) di cui 82 (tra dipinti e disegni) solo di Vincent van Gogh (18531890) «che ha camminato danzando sulla vita, come sul filo mai interrotto di un vulcano — tra lapilli, piccoli falò, notti e stelle — facendo diventare la luce colore, un colore che nessuno mai aveva dipinto così prima e che mai nessuno dipingerà». Poi una serie di opere di artisti che per lui sono stati importanti e che ha frequentato di persona: Gauguin ( Vegetazione tropicale / Paesaggio della Martinica, 1887), Millet ( Il seminatore, 1847-1848), Seurat ( Campo d’erba medica, Saint-Denis, 1884-1885), Signac ( Collioure. Il campanile, 1887), Hiroshige ( Massaki e il santuario Suijin no mori sul fiume Sumida dalla serie Cento vedute famose di Edo, 1856). È una sequenza di capolavori inebriante, capace di riscaldare persino fisicamente stanze dove tutto quello che fa da contorno ai quadri deve essere sempre e comunque contenuto: 20 gradi di temperatura, 50% di umidità, luci fredde, accessi contingentati e regolati dalle norme sul Covid-19, tempi di visita scanditi anche dalle audioguide. Gli stessi tecnici — gli «accompagnatori» ai quali è affidata la
sicurezza e la «salute» delle opere, gli operai che attaccano i quadri alle pareti (tutti con mascherina e guanti) — si muovono come in una sala operatoria: aprendo casse, togliendo involucri di carta bianca, scorrendo armati di lente la superficie di un disegno come i Minatori nella neve (1880) o lo Zappatore (1881) e di un olio su tela come Il seminatore (1888) o il sorprendente Burrone (1889) quasi fosse quella di un corpo umano.
Vedere arrivare, da solo, in una uggiosa mattina di fine settembre il celeberrimo (e tanto atteso) Autoritratto con cappello di feltro grigio del Van Gogh Museum di Amsterdam, realizzato con tutta probabilità nell’autunno del 1887 e che campeggia sulla copertina del catalogo (edito da Linea d’ombra), provoca un’emozione violenta che, come spesso accade con Vincent, fa prevalere il sentimento sulla ragione, l’emozione sulla consapevolezza tecnica che «quella tela è la ripresa di un altro autoritratto con lo stesso cappello, dipinto pochi mesi prima, e che dal confronto si comprende perfettamente