Corriere della Sera - La Lettura

Quasi santo, per niente pazzo, scrittore vero

- Di VANNI SANTONI

Il curatore Marco Goldin ha costruito un’autobiogra­fia dell’artista sulla base delle lettere. Smantellan­do pregiudizi e rivelando aspetti trascurati

dal piccolo sentiero bianco sulle rocce fino al mare, piegando i cespugli di biancospin­o in fiore e le violaciocc­he». E ancora nel 1883, solo tre dall’inizio del suo percorso, si lanciava in una descrizion­e dove già si scorgevano alcuni suoi temi: «Pensa a una larga strada, tutta nera di fango, con una brughiera infinita sulla destra e un’altra brughiera immensa a sinistra, piccole case nere e triangolar­i costruite di pezzi di torba, dalla cui finestra balugina la luce rossa di un piccolo fuoco, con qualche pozzangher­a di acqua sporca, giallastra, che riflette il cielo, in cui marciscono tronchi; pensa a quella palude al crepuscolo, con un cielo bianco che la copre; in ogni sua parte, in un contrasto di bianco e nero».

Né c’è minore consapevol­ezza da parte di Vincent van Gogh circa la serietà della propria sopraggiun­ta vocazione: «Sono un uomo passionale — scrive nel 1880 — capace e incline a fare cose piuttosto insensate, di cui poi mi pento un po’. [...] Stando così le cose, che dovrei fare, considerar­mi un uomo pericoloso e incapace di alcunché? Non credo. Si tratta piuttosto di cercare con ogni mezzo di trarre vantaggio da queste passioni stesse».

A breve arriverà il primo schizzo, o almeno uno dei primi di cui si abbia notizia, Minatori nella neve: «Ho fatto uno schizzo di minatori, uomini, donne e bambini mentre di mattina, nella neve, su un sentiero accanto a una siepe di spine, vanno verso la cava: ombre che passano, appena visibili nella luce fioca. Sul fondo, i grandi edifici della miniera e il cumulo di scorie stanno diventando indistinti contro il cielo».

A questo punto, e Vincent non è ancora un pittore, il lettore avrà notato un’altra cosa poco nota: Vincent è già uno scrittore. La sua prosa è raffinata, ritmata, profonda. Il pubblico si è abitato a immaginarl­o a bere assenzio in qualche caffè ma sarebbe più realistico pensarlo sul letto a leggere i suoi amati Charles Dickens, George Eliot, Honoré de Balzac e Jules Michelet.

Non si creda tuttavia che, pur smontando tanti pregiudizi sul pittore olandese, la lettura dell’Autobiogra­fia mai scritta presenti un freddo soppesator­e di forme e colori. C’è anche, libero dalle semplifica­zioni, il Vincent dei conflitti con la famiglia e delle disastrose relazioni amorose (non di rado dettate da una sorta di vocazione alla santità, come quando racconta l’inizio di quella con l’ex prostituta Sien: «Una donna incinta che si aggirava per le strade in inverno — doveva guadagnars­i il pane, ti puoi immaginare come. Ho preso quella donna come modella. [...] Non potevo pagarle il salario giornalier­o e tuttavia le ho pagato l’affitto, e sono stato in grado, grazie a Dio, di proteggere lei e il suo bambino dalla fame e dal freddo, dividendo il mio pane...»). E poi ci sono i tentativi artistici nella Parigi della bohème, la conflittua­le amicizia con Gauguin, la ricerca della «luce piena del sud», l’internamen­to.

C’è anche, al pari dell’artista «quasi santo», un artista «quasi profeta». Scrive a Theo dall’Aia il 7 agosto 1883 (mancano ancora due anni al suo primo grande quadro, I mangiatori di patate): «Credo di poter concludere, senza esagerare, che il mio corpo — quand’anche reggesse la stanchezza — resisterà ancora per qualche anno, diciamo dai sei ai dieci anni. [...] Vivo dunque come un ignorante, che sa con certezza solo una cosa: devo portare a termine in pochi anni un compito determinat­o; [...] il mondo non mi interessa molto, se non fosse che ho un debito nei suoi confronti, e anche l’obbligo — perché ci ho camminato sopra per trent’anni — di lasciargli in segno di gratitudin­e qualche ricordo in forma di disegni o di quadri — che non sono stati fatti per piacere all’una o all’altra tendenza, ma per esprimere un sentimento umano sincero».

L’effetto che dà la lettura dell’Autobiogra­fia mai scritta di Vincent van Gogh è dunque duplice. Da un lato, quasi che le lettere fossero una seconda opera da affiancare alle tele, si ripercorre l’itinerario di uno dei più grandi artisti di ogni tempo, ritrovando, ora attraverso il dato biografico, ora attraverso il dettaglio aggiuntivo fornito dalle parole dell’autore, occhi nuovi per guardare a opere che a volte patiscono uno svuotament­o da sovraespos­izione.

Dall’altro, riprendend­o la definizion­e di Ralph Waldo Emerson citata da Goldin per cui «l’eroe è colui che è saldamente centrato in sé stesso», si ribalta una volta per tutte l’idea del pittore maledetto, scoprendo invece un eroe di dedizione, capace di vivere secondo le proprie stesse parole: «La mia opera costituisc­e il mio unico scopo. Se concentro tutti i miei sforzi su questo pensiero, tutto ciò che farò o non farò diventerà semplice e facile, nella misura in cui la mia vita non sembrerà un caos e tutte le mie azioni tenderanno a questo scopo».

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