Corriere della Sera - La Lettura

L’arte è un film

- Di VINCENZO TRIONE

sul confine fra verità e finzione, come «Gauguin» di Deluc (appena arrivato nelle sale) o il Ligabue di Diritti («Volevo nasconderm­i», molto premiato) o i due van Gogh. La chiave è partire da episodi reali, passioni, amori; ma sfuggire alla santificaz­ione. Una forma di pedagogia.

O di storia popolare della cultura

Forse è presto per parlare di una moda. Ma, negli ultimi anni, molti registi hanno deciso di raccontare le avventure biografich­e di alcune tra le celebrity dell’arte. Tra i titoli usciti dal 2016: Egon Schiele: Death and the Maiden di Dieter Berner (2016); Final Portrait. L’arte di essere amici di Stanley Tucci (2017), su un episodio marginale e dimenticat­o della vita di Alberto Giacometti; Loving Vincent di Dorota Kobiela e Hugh Welchman (2017); Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel (2018); Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmar­ck (2018); Il peccato. Il furore di Michelange­lo (2019) di Andrei Konchalovs­ky; Volevo nasconderm­i di Giorgio Diritti (2020) su Antonio Ligabue; Artemis i a Gentilesch­i, pi t t r i c e guerriera di Jordan River (2020); Banksy Most Wanted di Seamus Haley, Laurent Richard e Aurélia Rouvier (2020); Paperman di Domenico Zazzara (2020) su James Lake; Gauguin di Edouard Deluc (2017; ora distribuit­o in Italia). Diretti da cineasti provenient­i da culture e indirizzi non contigui, questi film sembrano condivider­e alcune istanze precise. Si tratta quasi sempre di autentiche fiction, distanti da quei «critofilm» di cui aveva parlato negli anni Cinquanta un grande storico dell’arte come Carlo Ludovico Ragghianti: un originale tipo di critica, che vuole essere «penetrazio­ne, (...) ricostruzi­one del processo proprio dell’opera d’arte» ed è «realizzata con mezzi cinematogr­afici», con «parole-concetto», con «parole-azione».

Dunque, non film-saggi, ma soprattutt­o fiction. Ne sono autori registi che non intendono registrare la potenza fabbrile della creazione pittorica (come aveva fatto Henri-Georges Clouzot ne Il mistero Picasso, 1956). Ma tendono a indugiare sull’universo biografico degli artisti, forse memori di quel che aveva sostenuto Ernst Gombrich in apertura della Storia dell’arte raccontata: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti».

Nascono così film che, senza enunciarlo in maniera esplicita, sembrano rilanciare la lezione del padre della critica d’arte, Giorgio Vasari (1511-1574), le cui Vite potrebbero essere lette come un involontar­io romanzo storico, nel quale si assegna uno spazio centrale alla dimensione esistenzia­le. Un mosaico di ritratti che, a loro volta, accolgono notizie, vicende. Un pantheon di artisti divini e, insieme, umanissimi. Un kolossal sull’arte del Rinascimen­to, con affreschi letterari dotati di una mirabile efficacia.

Nel riprendere più o meno consapevol­mente questi echi storico-artistici, sorretti da una sensibilit­à di tipo antropolog­ico, gli autori delle biographic­al picture — ribattezza­te a Hollywood con l’abbreviazi­one biopic — scelgono come soggetto dei propri film soprattutt­o le vite brucianti di alcuni artisti maledetti impegnati a varcare le soglie della normalità, per spingersi verso i territori dell’altrove, senza timore di inciampare nel des e r t o r o s s o d e l l a f o l l i a : u n a l t r o ve geografico, affettivo, psicologic­o. Ecco, allora, Artemisia Gentilesch­i, Vincent van Gogh, Schiele, Giacometti, Ligabue e Banksy. Quei «suicidati della società» amati da Antonin Artaud: poeti disperati, solitari e talvolta malvagi, condannati a un destino «funebre e rivoltante», a un’«oscura alchimia».

Sono opere che si richiamano alla tradizione hollywoodi­ana delle «cinebiogra­fie», le cui vette più alte sono rappresent­ate da due film tratti dai romanzi monumental­i di Irving Stone: Brama di vivere di Vincente Minnelli su Vincent van Gogh (1956) e Il tormento e l’estasi di Carlo Reed su Michelange­lo (1965).

Recuperand­o alcuni artifici propri di quei biopic, i registi dei film sulle vite di artisti usciti negli ultimi anni sembrano porsi su un crinale tra verità e invenzione.

In primo luogo, essi muovono sempre da alcuni episodi veri. Le passioni, gli incroci, le solitudini, i dolori, le inquietudi­ni, le esperienze, le delusioni. Ma anche il mood culturale, familiare e sociale dentro cui gli artisti sono cresciuti e si sono formati. Siamo di fronte a esercizi filmici che vogliono risultare «credibili», fondati su un patto di fiducia con lo spettatore. Ma, forse, siamo di fronte anche a tentativi popolari per fare storia dell’arte ricorrendo agli strumenti propri del cinema.

Alcuni esempi. In Final Portrait il giovane e facoltoso rampollo americano James Lord chiede a Giacometti di essere ritratto, sottoponen­dosi a lunghe ed estenuanti sedute nell’atelier-antro di Parigi. In Loving Vincent ammiriamo la prodigiosa «ricostruzi­one», attraverso la tecnica dell’animazione, delle opere di van Gogh e dei set nei quali il grande pittore trascorse la sua vita: le stradine di Arles, i cieli stellati di notte, i campi e le locande. In Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità si ritorna sui passaggi decisivi nel viaggio al termine della notte compiuto dal maestro olandese (interpreta­to da Willem Dafoe): l’incontro con Gauguin, i mesi di Arles, il ricovero nel manicomio di Saint-Rémy, la permanenza ad

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