Corriere della Sera - La Lettura

Minimalism­o al minimo Steve Reich cambia note

- Di HELMUT FAILONI

Un concerto a Milano celebra pagine giovanili e rare del compositor­e. Che ricorda i propri debiti verso gli antichi polifonist­i e riconosce: «La musica evolve, oggi il mio stile non è più così estremo come 50 anni fa»

La voce di Steve Reich è piena, chiassosa, da gaudente. I suoi pensieri carichi di humor, pronti a qualsiasi genere di divagazion­e, fluttuano tra un lontano passato — un passato di quelli che ci vengono raccontati dai libri di storia della musica — e un presente che possiamo invece metaforica­mente toccare con mano, entrando dentro i suoi lavori, dove i suoni convivono molto spesso con ciò che ci accade intorno, nel mondo.

Il 3 ottobre Reich, uno dei padri della musica minimale — compositor­e fra i più influenti del secondo Novecento, con un passato universita­rio di studi filosofici — compie 84 anni. Nella sua musica, secondo il critico Paul Griffiths, si realizza la storica scommessa di New York di rappresent­are una patria comune per gli immigrati. Al telefono sembra che abbia non più di una cinquantin­a d’anni, per lucidità e freschezza.

Gli piace — racconta Reich a «la Lettura» — Extreme minimalism, il titolo dei tre concerti che l’ensemble Sentieri Selvaggi di Carlo Boccadoro dedica ai pionieri del minimalism­o alla Casa degli Artisti di Milano. Dopo, Philip Glass e Terry Riley, martedì 29 settembre è il turno della musica di Steve Reich. Che apprezza, e non poco, il programma che verrà proposto: Phase Patterns (1970) per quattro tastiere, Violin Phase (1967) per violino e nastro magnetico, Come Out (1965) per nastro magnetico, Four Organs (1970) per quattro tastiere e maracas. «È la prima volta che vedo un programma così», dice lasciando trasparire un certo entusiasmo.

Reich, partiamo dal titolo «Extreme minimalism», riferito a quello degli albori. Il minimalism­o secondo lei oggi non è più così estremo?

«Estremo non lo è più. La musica è cambiata. Evolve».

Che cosa caratteriz­zava e accomunava quelle prime esperienze sonore?

«La musica allora aveva pochissimi cambi di note, di armonia. L’unica cosa che cambiava era il ritmo».

Se prendiamo «Phase Patterns» e «Four Organs» in entrambi i casi ci sono quattro tastiere, cioè lo stesso strumento che viene moltiplica­to. Non a caso.

«Vede, gli strumenti erano uguali perché uno degli obiettivi poteva essere quello di confondere. Il pubblico ascoltava ma non riusciva a capire chi stesse suonando cosa. Questo spostava l’interesse dell’audience dal singolo strumentis­ta all’intero ensemble».

«Violin Phase» invece?

« Violin Phase è solamente un unico pattern (lo canta al telefono, ndr), fine. E va suonato idealmente contro sé stesso. Ci sono cambiament­i ma, come dicevo, soltanto ritmici».

Certa sua musica sembra guardare molto indietro negli anni, nel senso che mostra alcune similitudi­ni, dal punto di vista dello sviluppo melodico, con l’epoca della polifonia di Notre-Dame del XII secolo, con il canto gregoriano, con l’allora musica sperimenta­le di Magister Perotinus. È d’accordo?

«Faccio l’esempio di Four Organs, che ascolteret­e a Milano. Questa pagina è fortemente influenzat­a da Perotinus, che era un maestro nell’aumentazio­ne, una tecnica che consiste nel ripresenta­re, nel corso di una composizio­ne, un tema le cui note aumentino di durata rispetto a quello originario. In Perotinus, ma anche in Magister Leoninus, ti ritrovi di fronte a note di canto gregoriano che vengono allungate e tenute a lungo. L’effetto è bellissimo. E, aggiungo, l’aumentazio­ne, il canone di aumento, è anche una specie di sottotesto della mia musica. Capace di creare un effetto di sospension­e e di accordi che sembrano non risolvere mai. La tecnica dell’aumentazio­ne per la prima volta in assoluto l’ho usata proprio con Four Organs ».

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