Corriere della Sera - La Lettura
Rivolta e sconfitta Storie di individui
Abbiamo visto «Terra sacra» di Sasha Waltz (promossa) e «Familie» di Milo Rau (bocciato)
Il comune di Bugliano se lo contendono Pisa e Lucca, ma non esiste. O meglio, esiste nella fantasia tutta toscana dei tweet. In questi giorni, il suo sindaco ha emesso uno smagliante divieto: vietato usare la parola resilienza in forma orale e scritta sul territorio comunale. Ai trasgressori verrà comminata un’ammenda di euro 25.
Sarebbe bello che ciò accadesse per tante parole nuove o semi-nuove di uso ormai comune — da iconico a narrazione a site specific. Ho chiesto agli esperti cosa significasse questo termine entrato di prepotenza nel linguaggio delle arti sceniche ma nessuno è andato oltre la traduzione alla lettera. Eppure un inizio grandioso come quello di Romaeuropa era costellato di site specific, non so se da considerare parte dello spettacolo o come semplice intrattenimento del pubblico. Il «percorso coreografico negli spazi all’aperto» della Cavea dell’Auditorium di Renzo Piano si manifestava lassù, sui cornicioni dei muri che su due piani proteggono e dividono gli spazi. I ballerini compivano azioni solitarie e perciò insensate: inginocchiarsi, sedersi, alzarsi in piedi, sollevare le braccia.
Per fortuna la faccenda è durata poco e il vero spettacolo, Terra sacra di Sasha Waltz, si distingue in tre parti articolate secondo un preciso percorso di senso. can’t breathe è un assolo danzato da Edivaldo Ernesto su musica di Georg Friedrich Haas: la rivolta dell’individuo gettato nel mondo, senza protezione alcuna. A differenza dei ballerini che cadono sui cornicioni, che egli cada a terra è una naturale conseguenza, e lo è che si rialzi e avanzi, aprendo le braccia, o distendendole davanti a sé, come fosse un pugile. Edivaldo Ernesto è un uomo in lotta. Quando irrompono i ventuno ballerini (a un certo punto si dividono in tre gruppi di sette) dopo le prime note di Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij si capisce dai costumi autunnali che nulla è scontato, la primavera è lontana, essa verrà, ma bisognerà aspettare e frattanto danzare: senza contatto, senza che i corpi si tocchino, o toccandosi il meno possibile. Quei corpi si incrociano, si sfiorano, anch’essi cadono e si rialzano, a sostenerli, a dare loro la forza di resistere, nell’attesa, è la pura sessualità — che prorompe. Davvero muore, come vuole la tradizione, la ballerina vestita di rosso che chiude lo spettacolo? Quel rosso non sarà piuttosto il rosso del sangue che ritorna, o, come è più verosimile, che per la prima volta appare: il rosso della rinascita, il sangue della fioritura? La dolcezza, lo struggimento, il languore dei primi due che si toccano
Iper il Boléro di Maurice Ravel e poi di tutti gli altri, ne è una conferma. Questo Boléro, questa musica senza musica, questo ripetitivo tessuto orchestrale, nella Cavea è come se un crescendo (imploso, sotterraneo, quasi impercepibile) in realtà l’avesse, a conferma del legame di amicizia che unì Stravinskij e Ravel, legame battezzato a Roma dalla straordinaria cucitura della tedesca Sasha Waltz.
Prima del generoso, entusiasmante concerto sotto la pioggia per i quarant’anni di Wim Mertens, Ref2020 ha pescato in extremis Familie di Milo Rau, andato in scena all’Argentina in qualità di una ideale trilogia composta da Five Easy Pieces e The Repetition. Ma — benché perfetto nell’esecuzione, nell’impianto scenico, nella recitazione dei quattro interpreti (una famiglia di attori professionisti, composta da Leonce, Louisa e Filip Peeters, più An Miller) — ma, dicevo, Milo Rau per me resta lontano dall’essere un grande regista innovatore. Il suo schema compositivo, cinema più teatro, dove il cinema è teatro al dettaglio, è ovunque diffuso. La così precisa casa borghese in cui è chiusa l’azione è patrimonio comune a quell’Europa che può permettersi simili scenografie. Soprattutto, la sua idea di fotografia della realtà resta inchiodata a terra.
La realtà è ciò che si vede (ciò che Rau ci fa vedere), nulla di più. Non a caso, nel miglior prodotto — il più accurato, il più toccante per chi riesca a esserne toccato («forte», diceva una ragazza uscendo nel foyer) — si cela l’inganno maggiore.
La storia rappresentata in Familie riguarda «la banalità della classe media del nostro tempo» ed è realmente accaduta: quattro persone, padre, madre e due figlie adolescenti, suicide tutte insieme. All’inizio del racconto non lo si sarebbe detto il loro destino: la madre è un’attrice realizzata, ricca di piccoli piaceri; il padre gode a cucinare nudo e a nuotare nudo «con il pene a briglia sciolta»; le due ragazze, degli adolescenti non hanno che la malinconia.
Peculiarità dello spettacolo è che la più grande delle due racconta di quanto sta per accadere o è accaduto come fosse il suo personaggio — o sé stessa. Ma peccato di presunzione del regista è d’essersi accostato a questo episodio della nostra comune banalità, invero a questo mistero, senza nulla che lo metta in prospettiva, a briglia fin troppo tirata, senza santità alcuna, come non fosse il mistero che è e che tale resta.