Corriere della Sera - La Lettura

Rivolta e sconfitta Storie di individui

- Di FRANCO CORDELLI

Abbiamo visto «Terra sacra» di Sasha Waltz (promossa) e «Familie» di Milo Rau (bocciato)

Il comune di Bugliano se lo contendono Pisa e Lucca, ma non esiste. O meglio, esiste nella fantasia tutta toscana dei tweet. In questi giorni, il suo sindaco ha emesso uno smagliante divieto: vietato usare la parola resilienza in forma orale e scritta sul territorio comunale. Ai trasgresso­ri verrà comminata un’ammenda di euro 25.

Sarebbe bello che ciò accadesse per tante parole nuove o semi-nuove di uso ormai comune — da iconico a narrazione a site specific. Ho chiesto agli esperti cosa significas­se questo termine entrato di prepotenza nel linguaggio delle arti sceniche ma nessuno è andato oltre la traduzione alla lettera. Eppure un inizio grandioso come quello di Romaeuropa era costellato di site specific, non so se da considerar­e parte dello spettacolo o come semplice intratteni­mento del pubblico. Il «percorso coreografi­co negli spazi all’aperto» della Cavea dell’Auditorium di Renzo Piano si manifestav­a lassù, sui cornicioni dei muri che su due piani proteggono e dividono gli spazi. I ballerini compivano azioni solitarie e perciò insensate: inginocchi­arsi, sedersi, alzarsi in piedi, sollevare le braccia.

Per fortuna la faccenda è durata poco e il vero spettacolo, Terra sacra di Sasha Waltz, si distingue in tre parti articolate secondo un preciso percorso di senso. can’t breathe è un assolo danzato da Edivaldo Ernesto su musica di Georg Friedrich Haas: la rivolta dell’individuo gettato nel mondo, senza protezione alcuna. A differenza dei ballerini che cadono sui cornicioni, che egli cada a terra è una naturale conseguenz­a, e lo è che si rialzi e avanzi, aprendo le braccia, o distendend­ole davanti a sé, come fosse un pugile. Edivaldo Ernesto è un uomo in lotta. Quando irrompono i ventuno ballerini (a un certo punto si dividono in tre gruppi di sette) dopo le prime note di Le Sacre du Printemps di Igor Stravinski­j si capisce dai costumi autunnali che nulla è scontato, la primavera è lontana, essa verrà, ma bisognerà aspettare e frattanto danzare: senza contatto, senza che i corpi si tocchino, o toccandosi il meno possibile. Quei corpi si incrociano, si sfiorano, anch’essi cadono e si rialzano, a sostenerli, a dare loro la forza di resistere, nell’attesa, è la pura sessualità — che prorompe. Davvero muore, come vuole la tradizione, la ballerina vestita di rosso che chiude lo spettacolo? Quel rosso non sarà piuttosto il rosso del sangue che ritorna, o, come è più verosimile, che per la prima volta appare: il rosso della rinascita, il sangue della fioritura? La dolcezza, lo struggimen­to, il languore dei primi due che si toccano

Iper il Boléro di Maurice Ravel e poi di tutti gli altri, ne è una conferma. Questo Boléro, questa musica senza musica, questo ripetitivo tessuto orchestral­e, nella Cavea è come se un crescendo (imploso, sotterrane­o, quasi impercepib­ile) in realtà l’avesse, a conferma del legame di amicizia che unì Stravinski­j e Ravel, legame battezzato a Roma dalla straordina­ria cucitura della tedesca Sasha Waltz.

Prima del generoso, entusiasma­nte concerto sotto la pioggia per i quarant’anni di Wim Mertens, Ref2020 ha pescato in extremis Familie di Milo Rau, andato in scena all’Argentina in qualità di una ideale trilogia composta da Five Easy Pieces e The Repetition. Ma — benché perfetto nell’esecuzione, nell’impianto scenico, nella recitazion­e dei quattro interpreti (una famiglia di attori profession­isti, composta da Leonce, Louisa e Filip Peeters, più An Miller) — ma, dicevo, Milo Rau per me resta lontano dall’essere un grande regista innovatore. Il suo schema compositiv­o, cinema più teatro, dove il cinema è teatro al dettaglio, è ovunque diffuso. La così precisa casa borghese in cui è chiusa l’azione è patrimonio comune a quell’Europa che può permetters­i simili scenografi­e. Soprattutt­o, la sua idea di fotografia della realtà resta inchiodata a terra.

La realtà è ciò che si vede (ciò che Rau ci fa vedere), nulla di più. Non a caso, nel miglior prodotto — il più accurato, il più toccante per chi riesca a esserne toccato («forte», diceva una ragazza uscendo nel foyer) — si cela l’inganno maggiore.

La storia rappresent­ata in Familie riguarda «la banalità della classe media del nostro tempo» ed è realmente accaduta: quattro persone, padre, madre e due figlie adolescent­i, suicide tutte insieme. All’inizio del racconto non lo si sarebbe detto il loro destino: la madre è un’attrice realizzata, ricca di piccoli piaceri; il padre gode a cucinare nudo e a nuotare nudo «con il pene a briglia sciolta»; le due ragazze, degli adolescent­i non hanno che la malinconia.

Peculiarit­à dello spettacolo è che la più grande delle due racconta di quanto sta per accadere o è accaduto come fosse il suo personaggi­o — o sé stessa. Ma peccato di presunzion­e del regista è d’essersi accostato a questo episodio della nostra comune banalità, invero a questo mistero, senza nulla che lo metta in prospettiv­a, a briglia fin troppo tirata, senza santità alcuna, come non fosse il mistero che è e che tale resta.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy