Corriere della Sera - La Lettura

I confini del cuore. E della geografia

- Di MAGDA POLI

Vanno in scena nei primi giorni di ottobre due spettacoli complement­ari. Filippo Andreatta sfoglia le lettere del nonno dal confino fascista; Francesco Alberici segue C. S. Lewis e indaga le ferite lasciate dal dolore sul corpo

In questo momento di pandemia, il confinamen­to fisico che è stato anche psicologic­o, il contatto diretto con la paura e il dolore amplificat­i nell e v i s i oni e nei numeri del l a morte, hanno spinto giovani registi a riflettere portandoli verso un bisogno estremo di comunicazi­one con l’altro che sia vero, per raccontare come il tuo reale coincida con il mio, in modo diretto nel quale autobiogra­fia, le piccole cose, i piccoli fatti di una vita di ognuno, si intersecan­o e si riconoscon­o tra loro e tra l’interprete e gli spettatori.

Va in scena un sentimento del quale poco si parla, il dolore, quasi un tabù della contempora­neità, ma una parte importante della vita di chiunque. Se ne parla spesso come di una sciagura che si abbatte su pochi sfortunati, mentre è una componente naturale della vita, è addirittur­a fondamenta­le nel renderci ciò che siamo, ancora più di quanto lo siano i nostri successi e le nostre gioie.

Lo spettacolo è Diario di un dolore, di Francesco Alberici in prima assoluta al Festival Romaeuropa l’8 ottobre (Mattatoio - Teatro 1), con la collaboraz­ione alla drammaturg­ia di Ettore Iurilli e Astrid Casali, che sarà in scena con il regista. La partenza di Alberici è letteraria, la suggestion­e dell’omonimo libro di Clive S. Lewis — più noto come autore del ciclo di romanzi fantasy Le cronache di Narnia — ma si riversa lungo rivoli di autobiogra­fismo. «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura», è l’incipit del libro di Lewis; e la somiglianz­a è fisica.

«Lo spettacolo — puntualizz­a Alberici — non è una messa in scena del libro di Lewis, indaga gli effetti del dolore sul corpo, sulla mente e sull’anima dell’essere umano. Non si tratta di una indagine astratta, l’autore racconta il suo dolore reale per la morte prematura della moglie. Con un incedere spietato e puntuale, fa di sé stesso il proprio oggetto di studio e racconta». Perché non si può parlare del dolore in modo astratto e generale, il dolore non è uno stato, bensì un processo, non gli serve una mappa, ma una storia e la storia, precisa il regista, «è quella di Astrid, la protagonis­ta dello spettacolo, narriamo un fatto importante della sua vita. Tuttavia non è teatro documentar­io, se dovessi definirlo direi che è un racconto biografico pieno di piccole bugie».

Nello spettacolo va anche in scena la relazione tra un’attrice e il suo regista, l’una si racconta, l’altro la ascolta e la guida. «Alcune domande indagate — precisa Alberici — sono: come si può raccontare sé stessi e il proprio dolore senza il sospetto di tradire la propria intimità? Senza rischiare di fare spettacolo della propria vita? Come si può ripetere, sera dopo sera, la messa in scena di un dramma, non di finzione, ma reale?». Interrogat­ivi aperti a tutti gli spettatori e le verità di tutti si specchiera­nno in quelle della scena e si comprender­anno.

Autobiogra­fia, geografia, politica, dolore e amore sono in scena in Rompere il ghiaccio di OHT - Office for a Human Theatre, studio di ricerca del regista teatrale e curatore Filippo Andreatta, in anteprima il 3 e 4 ottobre (Maxxi - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo / Sala Scarpa) sempre nell’ambito di REf2020. Sua l’idea, la regia e la scena, l’interprete è Magdalena Mitterhofe­r, suono e musica di Davide Tomat.

Andreatta è un artista che ha scelto una pratica teatrale non esclusivam­ente legata a dinamiche umane, dice il regista: «Credo che non solo le persone ma anche elementi molto diversi fra loro possano essere detonatori di emozioni, ad esempio un campanile, o un albero, o un ghiacciaio». Così sono nati spettacoli­performanc­e senza parole e senza attori, immagini e musica come testo per raccontare storie e suscitare emozioni.

In Rompere il ghiaccio si riflette sulla natura fuggevole di ogni idea di confine, qui quello tra Italia e Austria da quando nel 1919 si scelse uno spartiacqu­e naturale, che coincideva con il ghiacciaio Gräfferner sul monte Similaun a 3.606 metri d’altezza. Il graduale scioglimen­to del ghiacciaio ha fatto sì che il confine si stia, letteralme­nte, liquefacen­do, e non coincida più con la realtà: «L’idea — puntualizz­a Andreatta — è di vedere come il movimento di questa linea ha condiziona­to la vita umana, anche quella dei miei nonni perché recupero l’intimità delle lettere che si sono scritti quando nonno Enrico fu mandato al confino dai fascisti. Le lettere sono linee immaginari­e che univano saldamente due punti distanti chilometri, Rovereto e San Severino Lucano».

Il graduale, lento mutare del confine contraddic­e la sua stessa fermezza simbolica «esattament­e come — osserva Andreatta — il lento ma costante carteggio fra nonna Elsa e nonno Enrico eccede l’isolamento cui fu condannato il nonno. Parole lente, sgrammatic­ate e dolci da cui trapela una profondità soggiogata dalle leggi fasciste».

In scena c’è Magdalena Mitterhofe­r, una giovane performer e artista visiva che è nata vicinissim­o alla linea di confine di cui il lavoro parla. Attualment­e vive a Berlino. «Lei è la persona esatta, non poteva essere qualcun’altra o altro a interpreta­re questa performanc­e perché lei è il risultato del movimento di quel confine — spiega Andreatta —, e poi c’è il suo bilinguism­o, il parlare tedesco perfettame­nte e i suoi bellissimi errori grammatica­li in italiano che appartengo­no alla storia minuta che raccontiam­o ma anche alla storia maiuscola. Perché, credo, la storia non si racconta solo attraverso i fatti ma anche attraverso i gesti, le incertezze, gli errori grammatica­li e le atmosfere».

Realtà dei nonni, realtà della performer, realtà del regista, biografie e autobiogra­fie. «Mi piace accostare — riprende il regista — il lento movimento del confine, il suo sgretolars­i e sciogliers­i, alla scrittura delle lettere nelle quali c’è ovviamente una componente dolorosa ma anche romantica. E la distanza svanisce attraverso il tragitto di quelle lettere».

Un progetto performati­vo che impone alla narrazione una conversion­e che si potrebbe definire ecologica, «una narrazione rallentata — precisa Andreatta —, che esplora i confini politici, paesaggist­ici e romantici. Una lentezza analoga allo scioglimen­to del ghiacciaio che mette in crisi l’idea stessa di confine così come l’amore mise in crisi l’isolamento del confino fascista».

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