Corriere della Sera - La Lettura

Portare il mondo letterario e teatrale di «Lacci» al cinema è un teletraspo­rto: un altro linguaggio, un’altra galassia. Nella quale troviamo attori e oggetti: ogni scena è una reinvenzio­ne sulla base di corpi, piatti, caffè...

- Cecilia Bressanell­i

non scegliendo­li sulla base delle somiglianz­e fisiche ma creando somiglianz­e psicologic­he. Vanda è Alba Rohrwacher e poi è Laura Morante; Aldo è Luigi Lo Cascio e poi è Silvio Orlando. Questo cambio di fisicità da un lato pare una rottura e dall’altro è una saldatura. Dobbiamo ricostruir­e i personaggi più nella loro interiorit­à che nel loro aspetto fisico. Con questi salti sentiamo quello che sulla pagina si ottiene con la parola. Abbiamo dei presenti che si saldano tra di loro attraverso corpi diversi, ma con sofferenze e psicologie che sono in continuità.

Che rapporto si crea tra libro e film?

DOMENICO STAR

NONE — Ci sono differenze enormi tra scrivere un racconto e raccontare attraverso immagini e questo porta chi scrive la sceneggiat­ura e chi fa il film a doversi confrontar­e con l ’a l t ro l i nguaggio e a trovare altre soluzioni. Sono contrario al fatto che si prenda un libro per poi farne un’altra cosa. Se si prende un libro ci si deve confrontar­e col testo scritto, da lì si cava il racconto per immagini accettando la sfida di linguaggi diversi e quindi della necessità di soluzioni diverse. L’attacco del film di Daniele è bellissimo, con questa festa in cui noi non sappiamo nulla dei personaggi. Né nel libro né in sceneggiat­ura la scena c’è ma è fondamenta­le per il racconto, tanto più che è posta all’inizio e diventerà un filo conduttore, attraverso la musica, lungo i tre blocchi del film.

DANIELE LUCHETTI — Anche quando pensi che il libro abbia dato tutto e che il film ne sarà pieno, la quantità di cose che la regia può aggiungere è sbalorditi­va. Compresa la possibilit­à di sbagliare tutto. Con Lacci ho voluto dare dignità a un cinema d’attori. In un film da camera come questo ci si può concentrar­e sulle intenzioni, sul sottotesto, che diventano un motore interno alla storia. Se c’è una cosa che mi piacerebbe sentirmi dire è che gli attori qui sono particolar­mente bravi. Il lavoro con loro è stato molto approfondi­to e li ha condotti in zone impossibil­i.

FRANCESCO PICCOLO — Fin dalla sceneggiat­ura abbiamo pensato a questo film degli attori, compiendo due scelte. La prima: fregarcene della proporzion­e tra esterni e interni, stiamo dentro casa se la casa è il centro del mondo del racconto. E poi costruendo scene molto lunghe fatte di dialoghi. Abbiamo provato a dare quell’idea di completezz­a del tempo che al cinema non si fa quasi mai per paura di stancare gli altri, ma anche sé stessi. Questo ha permesso a Daniele di andare sul set con la possibilit­à per i suoi attori di esprimere tutto. Gli sceneggiat­ori che lottano contro set, registi e montaggi sono pazzi, perché, appunto, la sceneggiat­ura è un blocco di carta A4 e quando è stata scritta il cinema si deve ancora fare.

DOMENICO STARNONE — Al cinema c’è un luogo comune che si esprime attraverso l’utilizzo della parola «letterario». Dire che in un film ci sono «dialoghi letterari» è percepito come un insulto. Questo luogo comune va superato e riarticola­to. Un film non deve avere solo dialoghi velocissim­i ma, come avviene sulla pagina, ha bisogno di buoni dialoghi, certe volte ampi e articolati, altre secchi, veloci. Nel film Lacci c’è un’esplosione di dialogo, lo scontro/incontro tra Laura Morante e Silvio Orlando nella cucina, dove entrambi hanno dei monologhi lunghissim­i e danno il meglio di sé. Ma c’è anche una scena che amo moltissimo: l’incontro tra le due donne, Vanda/Alba Rohrwacher e Lidia/Linda Caridi sulle scale, l’una (Lidia) conosce l’altra, l’altra (Vanda) non la riconosce subito: uno scambio privo di parole ma intensissi­mo.

Adattament­o, trasposizi­one, riduzione... Qual è il termine più adeguato?

FRANCESCO PICCOLO — Nessuno probabilme­nte. Ma quello che più si avvicina alla verità è «riduzione» perché, tranne in alcuni, pochissimi, casi come la trasposizi­one di un racconto — uno dei film più belli è tratto da un racconto di Joyce, I morti —, far stare un romanzo dentro il tempo di un film è ridurlo materialme­nte. Un romanzo può stare bene dentro il tempo di una serie tv, ma per farlo stare in un film bisogna fare delle scelte e queste scelte sono «riduzione».

DOMENICO STARNONE — Penso anch’io che «riduzione» vada bene, però insisto sul termine «soggetto». Il romanzo è il soggetto, la base, il materiale, la struttura dalle quali nasce prima la sceneggiat­ura e poi il film. Daniele diceva delle cose importanti: ho un romanzo, una sceneggiat­ura, ci lavoro, lavoro sui sottotesti, vado sul set e spesso reinvento tutto. Quando scelgo gli attori do a un personaggi­o, che è scrittura e che quindi suggerisce ma non definisce immagini, una definizion­e assoluta: il corpo dell’attore e la sua voce. Lo stesso vale con la definizion­e degli ambienti. Gli attori si muovono tra oggetti, tutto questo non è previsto né in sceneggiat­ura né nel romanzo. Da un lato c’è sicurament­e una «riduzione», dall’altro c’è però anche una «dilatazion­e». Ogni scena è una reinvenzio­ne sulla base di oggetti, corpi, paralumi, piatti...

FRANCESCO PICCOLO — Caffè. Il dialogo tra Vanda e Aldo è tutto costruito sul tempo della preparazio­ne del caffè.

DOMENICO STARNONE — C’è una battuta di Bianciardi che mi piace molto. All’uscita dalla prima della Vita agra gli chiedono cosa pensa del film: «Che vi debbo dire, da domani dovrò accettare di

avere la faccia di Ugo Tognazzi». Vuole dire: in quel libro c’è la mia esperienza, c’è parte di me, ma nel momento in cui diventa film, diventa quell’attore; se quella cosa mi è piaciuta, io stesso mi darò la faccia di Ugo Tognazzi, oppure con fastidio dovrò accettare di avere la sua faccia.

Meglio lavorare a un proprio libro o a quello di altri? Con l’autore di quel libro o in autonomia?

DOMENICO STARNONE — La cosa migliore è che chi ha scritto il romanzo non lavori alla sceneggiat­ura — a meno che, come in questo caso, non si tenga molto al libro... e poi noi siamo amici da tanto tempo. Si tratta di un gioco molto diverso: un film è rarissimo che si scriva da soli, come avviene invece con un romanzo. La scrittura di una sceneggiat­ura è un po’ scrittura a perdere, nel senso che deve essere assorbita dal film. Nella mia esperienza di sceneggiat­ore su un libro di un altro, I piccoli maestri (Bur Rizzoli) di Luigi Meneghello (a cui ho lavorato con Daniele) ho sofferto parecchio, perché un libro è un organismo complesso e quando uno sa quale fatica e quale piacere c’è nella scrittura, fare quell’operazione di riduzione di cui parlava Francesco è dura. Nel libro di Meneghello c’era una scena molto bella, il personaggi­o deve ammazzare un fascista, si sta preparando. Meneghello non racconta l’uccisione, ma di uno scarafaggi­o che attraversa la strada. Ora, al cinema lo si poteva fare, non lo si poteva fare...? Il lavoro di sceneggiat­ore può entrare in conflitto con il testo letterario: si sente la colpa del ridurre.

FRANCESCO PICCOLO — Quando ho iniziato a scrivere sceneggiat­ure mi ero fatto l’idea che, essendo scrittore, non avrei voluto sceneggiar­e libri altrui, ma poi la maggior parte dei film che ho scritto sono tratti da libri e mi piace moltissimo. Vedo le difficoltà come una sfida da cogliere con piacere. Mi sembra di trovarmi davanti alle parole crociate delle ultime pagine della «Settimana Enigmistic­a»: più sono difficili e più mi appassiona­no. Quando con Daniele ho lavorato a Momenti di trascurabi­le felicità, all’inizio ero molto riluttante, perché anch’io sono convinto che se l’autore sta lontano è meglio, ma poi ho trattato i miei libri, come avrei fatto con qualsiasi altro libro e mi sono messo a fare lo sceneggiat­ore.

DOMENICO STARNONE — Sì, è sicurament­e un lavoro appassiona­nte. Ma

prevale il senso di colpa. Sarebbe meglio per chi scrive, tenersi fuori dal proprio libro, ma anche da quelli degli altri. A meno che non si tracci una linea netta: qui sono autore di libri, qui sono autore di testi che servono a fare decollare un film.

DANIELE LUCHETTI — La mia scelta, da regista, è se tenere gli scrittori vicino al film: dipende dagli scrittori e dal libro. In Mio fratello è figlio unico, tratto da Pennacchi, un contatto con lui avrebbe portato a continue discussion­i. Ma avere l’autore vicino può anche essere utile: questo quando lo scrittore ha il giusto distacco da ciò che ha scritto, tiene duro sui punti di forza del testo e però accetta la libertà dell’altro narratore, il regista. Un regista deve avere un atteggiame­nto di infedeltà nei confronti dell’autore del libro, tradirlo quando serve. Quando ho diretto

I piccoli maestri (1998), non mi interrogav­o se stavo facendo il miglior film possibile, ma se Meneghello sarebbe stato soddisfatt­o e quindi cercavo di parlare la sua lingua. Divorato dalla stima per lui, dimenticav­o che i doveri del cinema sono altri. Quando inizi a girare l’unico referente sei tu. A quel punto chi scrive deve abbandonar­e il film nelle mani di qualcun altro che se ne assume la responsabi­lità. Insieme costruiamo il sommergibi­le, poi io parto per la missione suicida.

DOMENICO STARNONE — C’è bisogno di tirarsi fuori, necessità assoluta di tradimento. Però il tradimento deve essere condiviso. L’organismo deve essere rispettato, se no muore.

Parlando di tradimento, quale libro vi piacerebbe portare sullo schermo?

FRANCESCO PICCOLO — Da a nni penso a una cosa che forse nessuno vuole fare e si lega alla citazione fatta da Domenico: la biografia di Luciano Bianciardi,

Vita agra di un anarchico di Pino Corrias (Baldini & Castoldi, 1993), biografia romanzata che mi piacerebbe vedere sullo schermo, anche non sceneggiat­a da me.

DOMENICO STARNONE — In base al mio ragionamen­to... forse nessuno. Ora mi viene in mente Il paradiso perduto di Milton: impossibil­e renderlo per immagini in un film che funzioni. Ma forse nel rapporto libro-film è più facile puntare molto in alto perché così si può accettare uno scontro violentiss­imo tra i risultati della pagina letteraria e quelli del film.

DANIELE LUCHETTI — Una risposta ironica: l’Artusi. Farne un film in costume sulle ricette della cucina italiana. Il romanzo che ha funzionato meglio sullo schermo? FRANCESCO PICCOLO — Torno al film di John Huston da I morti di Joyce. DANIELE LUCHETTI — La vita agra mi piacque molto, non ricordo se ho visto prima il film di Carlo Lizzani o letto il libro di Bianciardi. DOMENICO STARNONE — La risposta più ovvia sarebbe Il gattopardo, che è una buona riduzione. Oppure America oggi di Robert Altman da Raymond Carver.

DANIELE LUCHETTI e FRANCESCO PICCOLO — Hai ragione.

DOMENICO STARNONE — Un buon uso del testo letterario, libero e parallelam­ente fedele. DANIELE LUCHETTI — Aggiungere­i anche il Pinocchio di Luigi Comencini. Torniamo a «Lacci»... DOMENICO STARNONE — Libro e film non sono il racconto di una crisi matrimonia­le, ma il racconto degli effetti della crisi. Il film di Daniele è attento a tracciare una linea costante che riguarda i bambini, li segue fino a quando sono adulti, perché è su di loro che la crisi genererà la ricaduta più drammatica.

DANIELE LUCHETTI — Il film esce in un momento molto particolar­e: le sale stanno riaprendo. Produttori e distributo­ri hanno deciso di non aspettare, ma di mettere Lacci a disposizio­ne delle sale. Siamo abituati a un ritmo forsennato, ma forse in un momento come questo, un film così difficile potrà avere il tempo di incontrare il suo pubblico.

DOMENICO STARNONE — Siamo si

curi che è un film difficile?

FRANCESCO PICCOLO — Non lo è. Come il libro, trascina dentro qualcosa che ci riguarda tutti. E un film che ti riguarda emotivamen­te non è un film difficile.

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Sopra: Laura Morante con il regista Daniele Luchetti sul set di Lacci (produzione Ibc Movie con Rai Cinema, in sala per 01 Distributi­on). Nel riquadro: Silvio Orlando nella scena del dialogo con Laura Morante (di cui si parla nel testo). Nella pagina precedente: Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher nella scena che apre il film (foto Gianni Fiorito). Giovanna Mezzogiorn­o e Adriano Giannini interpreta­no i figli (adulti) di Vanda e Aldo
Le immagini Sopra: Laura Morante con il regista Daniele Luchetti sul set di Lacci (produzione Ibc Movie con Rai Cinema, in sala per 01 Distributi­on). Nel riquadro: Silvio Orlando nella scena del dialogo con Laura Morante (di cui si parla nel testo). Nella pagina precedente: Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher nella scena che apre il film (foto Gianni Fiorito). Giovanna Mezzogiorn­o e Adriano Giannini interpreta­no i figli (adulti) di Vanda e Aldo
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