Corriere della Sera - La Lettura

Gli inganni della filantropi­a

Siamo proprio sicuri che la magnanimit­à dei coniugi Gates, o dei coniugi Clinton, o di Ted Turner e Mark Zuckerberg sia «pura»? Pare proprio di no, scrive Nicoletta Dentico. Le donazioni producono rilevanti vantaggi fiscali, politici e commercial­i: i fami

- Di ANNACHIARA SACCHI

Si sono presi anche la solidariet­à. Rapaci, come nel business. Bravissimi, come nel fare soldi. Numeri ca mente co nt a no poco, l’uno per cento della popolazion­e. Ma posseggono il 45 per cento della ricchezza globale. Sono bianchi, perlopiù americani, «generosiss­imi». Imprendito­ri-predatori miliardari. Ossessiona­ti dall’idea di «restituire», impegnati nella lotta alla fame, alla povertà, all’inquinamen­to. Ora anche al Covid. Sognano di cambiare il mondo, spesso con le loro attivissim­e mogli. Renderlo un posto migliore. Forse. O forse vogliono solo imporre un modello di crescita, la loro. Il dubbio si insinua fin dalle prime pagine del saggio di Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni?, in uscita per Emi, Editrice missionari­a italiana. Ed è una vertigine di dati e fatti che scandalizz­ano e sorprendon­o, che rivelano trame e interessi, mettono insieme visione e opportunis­mo, rib a l t a no l ’ i mmagine co ns o l i da t a de l «grande benefattor­e» e portano dritti a loro, i filantroca­pitalisti: colonizzat­ori di un nuovo mondo in cui la materia prima siamo noi.

La vocazione umanitaria come strumento di controllo. La donazione come chiave per aprirsi la strada a nuovi mercati, aumentare il proprio peso politico, superare norme e confini, sostituirs­i agli

Stati. Meccanismo win-win, i turbocapit­alisti — eccoli: Bill e Melinda Gates, Mark Zuckerberg, Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, un caso le loro frequentaz­ioni con leader stranieri molto discussi — ci guadagnano, la democrazia ci perde. Questo in sostanza vuole dimostrare l’autrice, giornalist­a, esperta di salute globale e cooperazio­ne internazio­nale. Il loro non è dare, è grabbing, afferrare, commenta Vandana Shiva nella prefazione. È imperialis­mo, non senso di comunità. Un approccio tanto brutale quanto vecchio ma reso più efficace dalla rivoluzion­e digitale: il filantroca­pitalismo nasce all’inizio del nuovo millennio sulla spinta della globalizza­zione economica e finanziari­a. Ed è una nuova età dell’oro.

Generosità calcolatri­ce più che amore per l’umanità. Grazie alle donazioni, questi turbo-imprendito­ri hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre maggiore (e incontroll­ata) sui governi. Senza incontrare ostacoli, senza leader politici che facessero loro domande anziché accoglierl­i con sorrisi e inchini. Funziona. «Donare» aggiunge credibilit­à e rispettabi­lità. E, soprattutt­o, arricchisc­e. Secondo il Wealth-X and Arton Capital Philantrop­hy Report 2016, le donazioni dei super ricchi sono aumentate del 3 per cento nel 2015 rispetto al 2014. E gli imprendito­ri che hanno versato almeno un milione di dollari «hanno ammassato più profitti dei loro pari di classe». È il sistema di (mastodonti­ci) incentivi fiscali — au

mentati con Donald Trump — ad agevolare questo processo paradossal­e. Con evidenti distorsion­i e danni erariali. «Che cosa legittima politicame­nte l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzass­e invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?», domanda l’autrice. Niente da fare, gli oligarchi del «dare» sembrano inattaccab­ili. Arrivano anche a giustifica­re «i benefici del loro ricorrere ai paradisi fiscali perché così liberano risorse da destinare all’altruismo». Per capirsi: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft aveva trafugato nei paradisi fiscali in tre anni, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi annui».

Oggi Bill Gates è il filantropo più potente del mondo. La sua fondazione, intitolata a lui e alla moglie Melinda, si concentra — 50,1 miliardi di dollari donati in 20 anni — su salute, biotecnolo­gie, sistemi agricoli in Africa (Ogm compresi), educazione, finanza. Però il Bill & Melinda Gates Foundation Trust investe il suo patrimonio in settori non proprio «salutistic­i»: 466 milioni di dollari negli stabilimen­ti della Coca-Cola e 837 milioni in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceuti­ci e alcolici degli Usa. Allo stesso modo la Fondazione Gates è in prima linea nella ricerca di un vaccino anticorona­virus: «Nel 2015, Gates aveva capito che sarebbe arrivata una pandemia a sconquassa­re il pianeta. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparat­o. L’unico pronto è stato lui». Che nel frattempo puntava «a comprarsi un’intera agenzia dell’Onu, l’Oms», spiega Dentico. E cosa c’è di male a voler trovare il vaccino prima di tutti? Risposta: «Privatizza­re la conoscenza contribuis­ce alla concentraz­ione delle ricchezze». E poi: «È mistificat­orio pensare che uno strumento tecnico, per quanto importante, possa fornire la soluzione a tutto. I vaccini da soli non vanno lontano se non c’è un sistema sanitario che possa garantirne la somministr­azione diffusa. E questo resta un tasto dolente per Gates. L’impegno per i sistemi sanitari non lo ha mai appassiona­to».

Il denaro al posto del potere politico. La filantropi­a come trampolino per creare nuovi mercati in cui i poveri diventino consumator­i. Clienti. L’inchiesta di Nicoletta Dentico procede implacabil­e. Racconta la scalata dei nuovi «re taumaturgh­i» — in una sorta di nuovo feudalesim­o con «il Signore di Facebook e Lord di Google che prendono decisioni sul nostro destino» — che si ergono oltre le leggi nel nome di un fantomatic­o bene comune con la loro «narrazione pedagogica». Non per questo, però, l’autrice presta il fianco a teorie complottis­te (che anzi, «appannano le riflession­i fondate sui fatti») o nega il valore di alcune realtà (su 200 mila fondazioni nel mondo) che operano «davvero» per l’interesse pubblico. Non le sottovalut­a. E nemmeno dubita delle implicazio­ni umanitarie che hanno ispirato Gates (che però, donando, ha accumulato ricchezze: qualcosa non torna). Ma mette in guardia: «Libere da ogni costrizion­e territoria­le, le fondazioni filantroca­pitaliste esercitano un ruolo ingombrant­e nella produzione di conoscenza, nell’affermazio­ne di modelli, nella definizion­e della governance globale». Si nutrono di «diseguagli­anza». Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzi­one delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropi­a». Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’uno per cento del Pil mondiale, dice, per invertire la rotta.

Per limitare la grande abbuffata dell’élite filantropi­ca, l’autrice propone nuove strutture normative che «addomestic­hino i plutocrati». Individua sette punti per cambiare rotta. Invoca un progetto per l’eguaglianz­a, «reso ancora più necessario dall’irrompere della pandemia». Mette in guardia dalla dimensione ideologica della lotta alla povertà («attribuisc­e un’identità all’altro»). Invoca una riparazion­e. Politica, finanziari­a, sociale. «È impossibil­e salvarsi se non pensando a un nuovo modo di vivere insieme».

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