Corriere della Sera - La Lettura
Lettera( tura) dal carcere
All’uscita delle Mie prigioni di Silvio Pellico, stampate a Torino nel 1832, si disse che quel l i bro a v re bbe da nneggi a to gravemente l’oppressore asburgico. Era una previsione azzeccata, dal momento che lo stesso cancelliere Metternich avrebbe ammesso che le memorie di Pellico erano costate all’Austria molto più di una battaglia persa sul campo. Ma quella era un’epoca di invidiabile ottimismo. Oggi le prigioni come lo Spielberg sono sempre lì; quella che sembra essersi smarrita è la speranza. È questa la differenza abissale che, in tema di scritture carcerarie e di denuncia di soprusi e lesioni della dignità umana, separa il capolavoro di Pellico da un libro come Nessun amico se non le montagne (Add editore) di Behrouz Boochani, curdo iraniano che, perseguitato dal regime di Teheran, ha cercato scampo in Australia e si è trovato per 5 anni prigioniero sull’isola di Manus, in Nuova Guinea, detenzione riservata agli immigrati clandestini. Uno dei luoghi più notevoli della geografia contemporanea della vergogna che Boochani, privato non solo di computer e carta, è riuscito a descrivere, a futura memoria, inviando su WhatsApp migliaia di messaggi in persiano a un amico, che via via li ha tradotti in inglese.
Scrivere in reclusione significa sfidare il controllo dei sorveglianti con mezzi di fortuna, ma l’esito a volte è eccezionale. I casi di Gramsci, di Bobby Sands e del prigioniero di tutti i regimi, Sade
Come si può facilmente intuire, più la libertà è conculcata più si fanno difficili le condizioni della scrittura in tutte le fasi, dalla prima concezione di un’idea alla trasmissione del manoscritto oltre le sbarre e alla pubblicazione. Con effetti che possono perpetuarsi anche dopo la morte dell’autore. Un caso esemplare sono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, che, immediatamente dopo la Liberazione, furono pubblicati da Einaudi con la supervisione di Palmiro Togliatti in un’edizione «tematica» che definire fuorviante è poco. Solo nel 1975, per merito di Valentino Gerratana, i manoscritti furono restituiti alla loro forma originaria, rivelando pienamente la ricchezza e l’irregolarità del metodo di pensiero di Gramsci. Ma a parte il caso delle vicende postume, ad accomunare le scritture carcerarie, c’è sempre la mancanza di un controllo totale dell’autore sull’opera.
Non c’è bisogno di avere letto Foucault per intuire che ciò che viene scritto in prigione è costantemente controllato, sottoposto a censura soprattutto se si tratta di lettere, eventualmente sequestrato e distrutto. C’è anche, d’altra parte, una ricchissima tradizione di espedienti di fortuna, dai più geniali surrogati della carta e dell’inchiostro ai sistemi per aggirare la solerzia dei più occhiuti guardiani. Le cartine di sigarette e i quadrati di carta igienica usati come fogli da Bobby Sands nel terribile carcere di Long Kesh sono solo due esempi di un’inesauribile ingegnosità che attraversa i secoli.
Chi fosse curioso dell’argomento (in fondo chiunque può finire, a torto o ragione, in gattabuia) potrà consultare un bel libro di Daria Galateria, uscito per Sellerio nel 2012: Scritti galeotti. Scrittori in catene dal Settecento a oggi. Ma quando si affrontano questi argomenti, non si può evitare di imbattersi, prima o poi, nell’ombra di Sade e del suo capolavoro, Le centoventi giornate di Sodoma. In Sade, ospite di tutte le prigioni più famose della storia di Francia, dove passò una buona metà della sua vita, il legame tra immaginazione e detenzione si fa stringente, come se l’una implicasse l’altra.
Bisogna considerare che il grande scrittore fu prigioniero — caso più unico che raro — di tutti i governi e i regimi che si susseguirono nella sua epoca tumultuosa. Arrestato nel 1777, ancora giovane, in conseguenza di una di quelle famose lettres de chevet che sono come il simbolo della monarchia assoluta, durante il Terrore fu rimesso dietro le sbarre dalla giustizia giacobina, e sfiorò la ghigliottina. Tornato per pochi anni in libertà, e resosi nuovamente colpevole di infamie come i romanzi dedicati a Justine e Juliette, fu riacciuffato dalla polizia napoleonica, e morì dopo Waterloo, nel manicomio di Charenton, in qualità di prigioniero del restaurato regime monarchico.
Ebbene, Sade è molto chiaro in proposito: la privazione della libertà ha la conseguenza di esacerbare e infiammare la sua immaginazione; la scrittura, che dell’immaginazione è il veicolo naturale, è il maggiore veicolo di contagio della perversione. Separando lo scrittore dai suoi simili, lo si trasformerà necessariamente in un pericolo pubblico, autore di ordigni verbali che prima o poi deflagreranno nella mente dei lettori, corrompendoli definitivamente. La prigione non è più una circostanza tra le altre nella vita dello scrittore, ma l’alambicco in cui si distilla un veleno capace di aggredire l’immaginario anche a secoli di distanza. È una teoria puntualmente verificata dai fatti relativi al manoscritto del capolavoro.
Nella sua cella alla Bastiglia, Sade trascriveva le Centoventi giornate, in calligrafia minuscola, su centinaia di foglietti che poi incollava a un rotolo facile da nascondere. Un lavoro sfibrante, da certosino del male, portato avanti a tappe forzate fino alla notte di inizio luglio del 1789 quando, pochi giorni prima che i rivoluzionari radano al suolo la Bastiglia, Sade viene prelevato e condotto altrove senza poter portare via nulla con sé. Fino alla morte, rimpiangerà la perdita di quel manoscritto. Non poteva sapere che in realtà il prezioso manufatto non era sepolto tra le macerie della Bastiglia, ma aveva iniziato un viaggio clandestino nel tempo di cui poco si sa, ma che coinvolse di sicuro molte persone: funzionari di polizia corrotti, bibliomani, collezionisti... Fino a che, nel 1904, uscì a Berlino la prima edizione del libro più maledetto della letteratura occidentale, curato da uno psichiatra che si firmava per prudenza con uno pseudonimo.
A partire da Guillaume Apollinaire, che pochi anni dopo pubblicò il primo studio scientifico sull’opera di Sade, e arrivando almeno al Salò di Pasolini, si può affermare che Le centoventi giornate di Sodoma sono lo scheletro nell’armadio del Novecento, il modello assoluto di ogni estremismo letterario a venire. Anche il castello di Silling, dove si svolgono le atrocità del romanzo, è una prigione: anzi, con le sue porte murate è la quintessenza, l’idea platonica di ogni prigione. Circondato da mura impenetrabili, separato dai suoi simili da quattro governi diversi e accomunati solo dal ritenerlo un mostro, Sade più di ogni altro riuscì a trasformare le circostanze della sua vita in una via di conoscenza, e il suo talento artistico ne fece il più libero degli uomini.