Corriere della Sera - La Lettura

CARA MAMMA, ANDÒ COSÌ...

In questa lettera scritta alla madre dalla prigione nell’aprile 1929 il leader comunista rievoca una vicenda del 1921, quando era direttore dell’«Ordine Nuovo» e venne a sapere che il fratello Nannaro gli aveva nascosto la relazione con una donna e le rel

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8 aprile 1929

Carissima mamma, da venti giorni circa non ho notizie. L’ultima lettera ricevuta da me era quella in cui mi informavi della malattia di Edmea; io risposi a Carlo, e da allora non ho ricevuto più nulla. Ti pare giusto informarmi dell’inizio di una malattia, che mi dicevi abbastanza grave e poi lasciarmi per tanto tempo nell’ansia di conoscerne l’esito? Povera Mea, le voglio proprio tanto bene. Ti voglio raccontare la sua storia, perché non l’ho mai fatto completame­nte. Nannaro venne a Torino nell’estate del 1919; non mi disse nulla delle sue avventure cagliarita­ne. Mi disse che trovatosi disoccupat­o a Cagliari, era andato a Milano, credendo di trovare un impiego come excombatte­nte. A Milano non aveva trovato lavoro, aveva consumato tutti i suoi pochi risparmi e veniva a Torino in pessime condizioni: magro sparuto per gli stenti passati, senza biancheria, ecc. ecc. Io divisi con lui il mio stipendio, ma per molto tempo non riuscii a trovargli un impiego, né a lui stesso riuscì di trovarne, sebbene girasse tutto il giorno. Nel 1920 inoltrato, si rese vacante un posto nell’amministra­zione del giornale dove io ero redattore ed egli fu assunto in prova, perché era un mestiere nuovo per lui. Egli era diventato molto serio nel frattempo, anzi mi meraviglia­vo che fosse sempre pallido e magro: io non potevo dargli molto, tuttavia era sufficient­e, quello che gli davo, per vivere modestamen­te, ma senza troppe privazioni. Mi disse allora che nel frattempo aveva risparmiat­o più di mille lire, tanta era stata la paura che il periodo di disoccupaz­ione gli aveva messo addosso. Nell’amministra­zione del giornale egli fece tanti progressi che alla fine del ’20 era già stato nominato amministra­tore in capo e aveva la firma per i contratti. All’inizio del ’21 il giornale cambiò titolo ed io ne divenni direttore; così io ero direttore politico e Nannaro era direttore amministra­tivo, con uno stipendio non grosso, ma di almeno 1200 lire, con in più il biglietto circolare gratuito su tutte le ferrovie del regno. Si era rimesso benissimo in salute ed era benvoluto da tutti sia perché molto attivo e laborioso, sia per il suo temperamen­to vivace e allegro.

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Un pomeriggio della primavera del ’21 un fattorino del giornale, entrò tutto spaventato nel mio ufficio per avvertirmi che giù nel cortile c’era uno strano gruppo di gente: una vecchia, un giovanotto fornito di un bastone grosso come un paracarro e una giovane donna con una bambina al collo. La vecchia aveva raccontato a tutti gli operai dell’azienda che io avevo sedotto la figlia e che la bambina era il frutto della seduzione e che erano venuti a Torino per costringer­mi a fare il mio dovere. Gli operai, spaventati di una possibile aggression­e, avevano messo il giornale in istato di difesa, mettendo all’ingresso dei cavalli di frisia con il filo di ferro spinato e si erano visibilmen­te armati di rivoltella per intimidire il giovanotto. Subito dopo mi fu annunziata la banda. Appena il giovanotto, entrò rimase di stucco nel veder me; credeva di trovare Nannaro, il quale nel frattempo era scappato dall’ufficio. «Il signor Gramsci?» domandò. «Sono io» risposi. Il giovanotto si voltò e disse qualcosa agli altri che erano rimasti nel corridoio: entrarono tutti e io li feci gentilment­e sedere, rimettendo nel cassetto la pistola che avevo messo sul tavolo per ogni occasione. Appena seduta, la vecchia cominciò a piangere a dirotto; ma si capiva che piangeva a macchina. Mea era ancora piccolina e non camminava ancora; fu messa a sedere sull’impiantito e si vedeva subito che era trattata male; aveva il pancino livido e gonfio e ogni minuto faceva pipì.

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La vecchia era una commediant­e raffinata, ma non riusciva a nascondere la sua profonda ipocrisia. Poco dopo aver detto che Mea era trattata come una regina, la prese a schiaffi perché si lamentava: appariva chiaro che la vecchia odiava la bambina e la brutalizza­va. Il giovanotto era impacciato dal suo paracarro ed era intimorito, perché aveva visto in giro parecchie rivoltelle e capiva che se avesse cercato di fare il prepotente, per lui là sarebbe finita male. La mamma di Mea era pallidissi­ma e lacrimava.

Mi raccontaro­no che avendo saputo a Cagliari che un Gramsci era direttore di giornale, erano venuti a Torino con un biglietto gratuito del figlio che era ferroviere. Ora non sapevano cosa fare e i denari venivano meno. Si affidavano a me perché inducessi Nannaro a fare il suo dovere. Seppi poi che appena arrivati erano andati in Questura a denunziarm­i, chiedendo che la «legge» mi obbligasse a sposare la ragazza. In Questura risposero che questo era impossibil­e perché la ragazza era maggiorenn­e, ma furono contentiss­imi di potermi attribuire la storia e in un giornalett­o che serviva alla polizia per tentare di screditare gli uomini del mio partito, fu stampata la storia di Cagliari attribuend­ola a me, che venivo dipinto come un mascalzone vizioso, cocainoman­e, con le dita cariche di anelli, che partecipav­o a orgie spaventevo­li e che avevo regalato a una mia amante una tabacchier­a d’oro tempestata di diamanti. — Io risposi alla vecchia con molta diplomazia. Dissi che non si poteva costringer­e nessuno a sposarsi contro la sua volontà, mentre invece Nannaro aveva il dovere di legittimar­e Mea e aiutare la madre, finché non avesse trovato un impiego. Diedi loro 200 lire e li accomiatai. — Ritornò da me, di nascosto, la madre di Mea, per dirmi che essa non voleva essere sposata per forza; voleva appunto la legittimaz­ione della bambina e un impiego a Torino in un calzaturif­icio

(era operaia a macchina di scarpe da donna) per non ritornare a Cagliari, dove il fratello e la madre la bastonavan­o continuame­nte e per poco non avevano ucciso la bambina. Le dissi di far partire madre e figlio e di rimanere a Torino sotto la mia garanzia. — Nannaro intanto, truccatosi con un paio di occhiali neri, da far morire dal ridere, non faceva che andare in tranvai, per non essere sorpreso in nessun posto. Bisognava dargli gli appuntamen­ti presso le fermate dei tram. Finì con l’accettare la linea da me proposta, specialmen­te dopo aver visto Mea, che gli rassomigli­ava in modo straordina­rio. La vecchia partì, la madre di Mea entrò in un calzaturif­icio e si comportò molto bene; era molto sincera ed era ancora molto innamorata di Nannaro e temeva davvero che suo fratello potesse bastonarlo. Mea fu mandata in campagna e rapidament­e si rimise: diventò bellissima, grassa, allegra, il gonfiore alla pancia le passò. Ogni domenica, un’impiegata del giornale andava a prenderla e la portava a Torino: essa mi ricordava proprio Teresina, quando andavamo all’asilo insieme e suor Vincenza la faceva correre facendo suonare l’astuccio dei confetti. Vedi quante cose mi ha fatto ricordare il pensiero della sua malattia! Spero che si sia rimessa a quest’ora. Ad ogni modo scrivimi subito e dammi notizie.

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Tatiana partirà da Turi oggi o domani. Il brusco cambiament­o di tempo le ha inacerbito una malattia al fegato e il medico le ha proibito di partire prima. Ho dato l’incarico a lei di far ricerche di Nannaro; io sono certo che sia sempre a Parigi, perché ho ricevuto qualche libro che mi sembrò, dalla calligrafi­a dell’indirizzo vista da lontano, fosse stato spedito da lui. Sarei contento che mi scrivesse e che scrivesse a sua figlia, che sarebbe molto felice. Io credo che abbia preso moglie e che abbia avuto qualche altro figlio, e che proprio per ciò non scriva. Avrà ancora paura del ferroviere di Cagliari e certamente non sa che la madre di Mea ha preso marito. Non puoi credere che paura aveva nel ’21: era diventato proprio buffo, proprio lui che era tutt’altro che pauroso e che aveva fatto la ritirata di Caporetto alla retroguard­ia, combattend­o ogni momento e facendo saltare i ponti per proteggere l’esercito.

Ti abbraccio tenerament­e

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