Corriere della Sera - La Lettura
A precipizio negli abissi della mente
Assai spiazzante il nuovo romanzo di Ermanno Cavazzoni. Che comincia dall’artificio del manoscritto ritrovato e procede in un intreccio tra poliziesco, horror, extraterrestri e paranoia da mondi paralleli alla Philip Dick
Si resta un po’ attoniti di fronte al nuovo romanzo di Ermanno Cavazzoni, La madre assassina. È cupissimo. Chi mai avrebbe immaginato che la sua Musa — di solito così aerea e soave anche quando gli sussurra distopie come il formidabile La galassia dei dementi, perfetta miscela di fantascienza e poemi eroicomici rinascimentali — fosse in grado di cantargli una vicenda così nera? Anche lo stile è cambiato, si è fatto secco, teso, quasi del tutto privo dei capricciosi ma in realtà calcolatissimi va e vieni con l’oralità per cui di solito lo si riconosce ad apertura di pagina. Viene da pensare che si sia spaventato lui per primo.
Fatto sta che, forse per schermarsi, per proteggersi, Cavazzoni ha convocato un’intera enciclopedia di generi e di topoi a raccontare la sua storia, cominciando dall’artificio del manoscritto ritrovato, tipica mossa distanziante (è tutto vero, ma i lettori smaliziati, o che hanno presente almeno I promessi sposi...). Poi il poliziesco, l’horror, gli extraterrestri, la paranoia da mondi paralleli alla Philip Dick. E ancora, la tipica indecidibilità del racconto fantastico: al protagonista, Pacini Andrea — che una mattina sente di essere stato assassinato e sostituito con un essere artificiale, e sospetta dell’assassinio sua madre, il ragionier Olivi amministratore di condominio, alla fine un po’ tutti i condomini — i fatti sono accaduti davvero, sia pure nel mondo della finzione romanzesca, o è lui che non è tutto a casa, in altre parole matto da legare?
Ma non basta. Oltre al sospetto che la madre gli cucini pezzi del suo corpo (non si è forse visto lui stesso, il suo cadavere cioè, congelato nel freezer in cantina, con alcuni arti mancanti?), il rapporto con la madre che lo chiama «micino» è tutto improntato alla più classica delle demenze percolanti da un Edipo andato a male. Una volta la spia in bagno e ne scorge il sesso nudo: orrore! Se solo fosse Perseo per decapitare la Medusa! E non l’ha vista un’altra volta com’è veramente, una piovra gigantesca che riempie oscenamente di sé tutta la cucina? Altro tema di facile, non criptata matrice psicoanalitica. O c’è un complotto, che sia dei cinesi o degli alieni, o è lui che non regge una madre appiccicosa. La letteratura clinica rigurgita di casi come questo. Anche chi non ha letto Freud o visto Psycho di Hitchcock, di questi temi è un poco infarinato. Per questo lascerei da parte Kafka, evocato nel risvolto di copertina, che ha ambientato i suoi mondi senza scampo in eoni dove non c’è spazio per cose futili come la psicologia.
Il racconto, non c’è neanche da dirlo, è condotto magistralmente. La suspense è tenuta fino all’ultimo. A dare manforte accorre servizievole anche la tematica angosciosa, tutta contemporanea anche se con antichissime radici mitologiche, del corpo sostituito dalle protesi. Né Andrea (o Andrè, o Andrio, come lo chiama una vecchia zia acida e dispettosa) si risparmia il dubbio che la sua mente non sia davvero sua, ma pseudoricordi e pseudopensieri che gli hanno impiantato «loro»: così abbiamo in un colpo solo il motivo del Doppio (Andrea nel romanzo si vede almeno due volte) e quello del lavaggio del cervello, già presenti in Plauto, Anfitrione, dove compare la parola Sosia, e in tanta fantascienza scritta, cinematografica e televisiva.
Questo ci riporta al quesito iniziale: perché, per narrare un episodio perturbante e sinistro ma al tempo stesso abbastanza lineare (pochissimi flashback, nessuna anticipazione), Cavazzoni ha sentito il bisogno di convocare un’assemblea di condominio non si dice di tutti i temi e i generi possibili, ma insomma? Scartiamo subito come indegna di lui l’ambizione di provarsi con la «mescolanza dei generi», sintagma che si spera scompaia quanto prima insieme ai fiacchi termini di cui è composto, almeno nel senso in cui li si intende correntemente per pigrizia mentale. Di evidente c’è solo che nessuno lo soddisfa. Che non ci crede. Che la sua storia non è neanche una storia ma un’immagine ossessiva, come per Poe il sepolto vivo, che ricorre anche qui. Un’immagine matrice, un’immagine madre. La Madre, colei che dà la vita e che per ciò stesso, vuoi come capo di un complotto vuoi perché troppo zuccherosa e protettiva, può anche toglierla. Da cui, va da sé (ma non sarà un altro cliché evocato ironicamente?), il tabù dell’incesto, pietra d’angolo di tutta la cultura occidentale e c’è chi dice della cultura umana in generale. Che ci va a fare tutte le sere dall’Olivi? Chi è mai il turpe figuro che ha preso il posto di suo padre scomparso (cfr. Amleto)? Mai titolo è stato così parlante, riassuntivo, interpretazione di sé stesso: La madre assassina.
Altro che spoiler! Suggestionate da Goethe, le persone istruite parlavano una volta di discesa alle Madri (una scena del secondo Faust che non necessariamente avevano letto) per indicare lo sprofondamento negli strati più arcaici e indicibili del tempo insieme psichico e cosmico. Si direbbe che, senza peraltro la guida di nessun Mefistofele, qui Cavazzoni abbia compiuto la sua. Che vi ha trovato? Un ammasso spurio di cliché, cantine sordide, ragnatele, gatti spellati — ma forse, non dimentichiamolo, è il narratore che delira, già il fatto che parli di sé in terza persona non è un bel segnale, lo fanno i bimbi piccoli quando ancora non padroneggiano i pronomi... Spazzatura, non segreti indicibili, cose già dette, sceneggiature già mille volte collaudate, per di più equivalenti tra di loro dal punto di vista funzionale.
Non stupisce che gli siano tremate le mani, e che stilisticamente parlando tenga la penna così stretta, lui che di solito scrive metà come un balordo della Bassa non troppo a suo agio con la lingua e metà come un trattatista cinquecentesco, un Castiglione, un Della Casa. E non stupisce che tremino un po’ anche al recensore, non per l’orrore della storia ma per l’ingiudicabilità dell’operazione — dal critico ci si aspetta sempre una qualche forma di giudizio, non c’è santi. Per azzardare una sintesi: perfettamente riuscita, ma ne valeva la pena?