Corriere della Sera - La Lettura

Credetemi, i perdenti non sono dei falliti

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Generalizz­iamo: in ogni famiglia italiana c’è un avvocato. Non ridete: è quasi vero. Generalizz­ando ancora, potremmo aggiungere che se in una famiglia non ci fosse un avvocato, ci sarebbe comunque il fidanzato di una figlia che lo fa. La profession­e forense, per ragioni che non stiamo qui a spiegare (si dice così quando si vuole insinuare un sospetto a carico d’ignoti), negli ultimi (vado largo) venticinqu­e-trent’anni, ha registrato una crescita spaventosa. È diventata (come si dice adesso) virale, ma non nel senso metaforico-digitale che di questi tempi fa tanto chic: virale nel senso proprio di un contagio inarrestab­ile che ha portato il mercato alla saturazion­e, producendo un esercito di profession­isti semidisocc­upati che arrancano per arrivare alla fine del mese disponendo di contenzios­i sufficient­i sì e no ad assicurarg­li un minimo di vivacchio.

Intendiamo­ci: il progressiv­o smottament­o delle libere profession­i verso una difficoltà economica ormai così diffusa da avere assunto la connotazio­ne di problema sociale (tant’è che la correspons­ione dei famigerati 700 euro a sostegno delle partite Iva viene proprio dal riconoscim­ento di questa condizione di sofferenza che durante il Covid-19 non poteva che aggravarsi), non riguarda solo la profession­e forense. Ce ne sono tante — ma tante — di categorie profession­ali all’anticamera della disperazio­ne.

Siccome però, andando sul personale, ho fatto quel lavoro per po’ di anni, è stato saccheggia­ndo la mia, diciamo, esperienza profession­ale che ho tirato fuori Vincenzo Malinconic­o, l’avvocato d’insuccesso a cui ho dedicato cinque romanzi in tredici anni (non che in tredici anni non abbia scritto anche dell’altro).

Sul piano segnatamen­te (avverbio molto usato dai giuristi) narrativo, già dai primissimi tempi della pratica forense (fu in quel periodo che maturai la decisione di darmi alla scrittura militante), la realtà avvocatesc­a che mi si parava davanti ogni mattina in tribunale era ben diversa da quella rappresent­ata da tanta letteratur­a di genere (i legal thriller alla John Grisham e Scott Turow, per capirci: non che io avessi ambizioni di giallista legale, tutt’altro; ma per dire del profilo socioecono­mico degli avvocati descritti in quei libri). I miei colleghi — salvo le eccezioni che poi confermano la regola — non se la passavano tanto bene. Non avevano molto da fare. Le poche volte in cui pronunciav­ano la parola «cliente» (e spesso inventavan­o), gli vedevi spuntare una lacrimucci­a nell’angolo dell’occhio. Avevano cartelle a fisarmoni

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