Corriere della Sera - La Lettura
Elogio dei romanzi Sono i raggi X del genere umano
Da un po’ di tempo ho sviluppato un’insana predilezione per gli scrittori che scrivono di scrittori. Mi rendo conto che, buttata lì così, all’inizio di un articolo, possa apparire una velata, capziosa, parecchio inelegante difesa corporativa. Lasciate che ripulisca l’orizzonte da un equivoco così spiacevole.
Sebbene la pratichi da anni, stento ancora a considerare la narrativa un mestiere o una professione, alla stregua, che so, del fornaio o del farmacista. Mi pare che la costanza, l’abnegazione, il rigore che richiede, gli scopi che persegue e i tempi lunghi di cui non può fare a meno la rendano più affine al modellismo, la miniatura e l’antica arte dell’orologeria. Inoltre, il senso della realtà e delle proporzioni mi vieta di ritenermi collega di Cervantes o un credibile allievo di Dickens.
Tutto questo per dire che prendo questa mia passione matura per gli scrittori che scrivono di scrittori per ciò che è: un’inclinazione dettata dal gusto e dal capriccio, in quanto tale gratuita, scriteriata e incontestabile.
Se poco più che ventenne, fresco di studi, divoravo i capolavori di Auerbach, Poulet o Starobinski, oggi, alla soglia dei cinquanta, traggo piacere estetico e profitto intellettuale dalle prefazioni di Balzac e James, dalla corrispondenza di Flaubert, Rilke e Kafka, dai quaderni intimi di Woolf e Cheever, dai saggi di Baudelaire, dalle lezioni universitarie di Forster e Eliot, dalle interviste di Nabokov e Brodskij, dalle recensioni di Manganelli, dalle note che Natalia Ginzburg e Primo Levi erano soliti scrivere alle loro traduzioni dal francese o dal tedesco.
Non arrivo a sostenere, sulla scorta di George Steiner, che la sola interpretazione dell’Odissea degna di nota sia quella che Joyce ha affidato al suo povero peripatetico Bloom. Di nuovo, andiamoci piano con le provocazioni. Mi limito a registrare che il dialogo tra scrittori può riservare sorprese tonificanti. Quando Virginia Woolf nota come la parola «anima» ricorra nei racconti di Cechov non dieci ma mille volte, capisco molto dello spirito cechoviano, ma anche dell’orecchio di Woolf per le ripetizioni. Quando Brodskij si sofferma sull’economia espressiva esibita dal titolo di una celebre lirica di Rilke, notando en passant come il rischio corso da un titolo è di risultare didattico, enfatico, banale o decorativo, la mia mente esulta di fronte a una verità essenziale giunta da una fonte che più diretta e autorevole non potrebbe essere.
Insomma, quando un narratore o un poeta commentano l’opera di un collega, taccio e li ascolto volentieri: forse perché avverto che essi conoscano dall’interno le penose difficoltà pratiche poste dalla creazione di un personaggio o dalla musica di un verso. Chissà che non sia la pratica quotidiana del mestiere a renderli, nel valutare gli altri, meno dogmatici e più comprensivi di un qualsiasi stroncatore di professione. D’altronde, il minimo che ti aspetti dalle divagazioni saggistiche di un narratore e un poeta è che siano lavorate con il gusto, lo stile e la personalità che ne distingue le opere.
Il caso Updike
È con questo spirito aperto e ricettivo che ho affrontato le bozze di Armoniose bugi e , una r a cco l t a di s a ggi di John Updike curata da Giulio D’Antona, elegantemente tradotta da Tommaso Pincio, appena pubblicata dalla casa editrice Sur, non nuova a queste imprese.
Date le circostanze, considero John Updike il mio uomo all’Avana. Pochi scrittori, infatti, hanno incarnato, nell’ultimo scorcio di secolo, la figura del grande narratore prestato alla critica, o se preferite, del grande critico prestato alla narrativa. La sua stupefacente versatilità lo ha indotto, nel corso di un’esistenza laboriosa, solitaria e ricca di onori, a pubblicare centinaia di pezzi critici, alcuni dei quali talmente influenti e ben confezionati da rivaleggiare con gli assai più noti capolavori narrativi.
Il solo peccato di questa raccolta è di essere tale. Un assaggio o poco più dell’acribia, la sapienza, la saggezza, lo stile di Updike. Ciò detto, bisogna ammettere che l’antologia è stata allestita da D’Anto