Corriere della Sera - La Lettura
Il camion dell’arte
Luca Vitone ha preso un furgone e lo ha parcheggiato nell’abbazia di Valserena, Parma: trasporta opere, archivi, memoria. Ma non è stato il primo. Già Joseph Beuys allestì un modello Volkswagen; e Abramovic arredò casa e atelier su un Citroën
Con il Ford Transit Anni Novanta parcheggiato sotto la navata centrale dell’abbazia di Valserena, alle porte di Parma, Luca Vitone (Genova, 1964) rende omaggio al concetto di archivio partendo dal furgone utilizzato fino al Duemila per il trasporto e l’acquisizione di opere e archivi all’interno del Centro studi e archivio della comunicazione (Csac) fondato nel 1968 da Arturo Carlo Quintavalle e che proprio nell’abbazia ha la sua sede. Nella mostra Il Canone (fino al 18 ottobre) quel furgone diventa «metafora dell’azione del prelevare e dell’agire per la raccolta e la costruzione dell’archivio».
Non è la prima volta che Vitone sceglie le «quattroruote» come simbolo di un qualche percorso personale, non solo fisico: nel 2017, in occasione della monografica al Pac di Milano ( Io, Luca Vitone) era stata la vecchia familiare Peugeot di Ultimo Viaggio (2005) a raccontare, con una foto dell’artista appena tredicenne, il viaggio da Genova al Golfo Persico compiuto da Vitone nell’estate del 1977.
Ora la lunga parata di lavori e progetti che sembrano uscire quasi per caso dal portellone posteriore del furgone definisce «un ampio spettro della ricerca artistico-culturale italiana del Novecento», una selezione operata secondo un «canone» personale che ricostruisce possibili affinità elettive tra le opere conservate allo Csac e l’autobiografia di Vitone, «immaginari legami» che l’artista ha ritrovato confrontandosi direttamente con il patrimonio dello Csac. Ventiquattro le opere scelte, molto eterogenee per stili e linguaggi: Afro Basaldella ( Giornale 63/1, 1963); Walter Albini (la collezione di moda I clown, autunno-inverno 1972-1973); Mario Schifano ( Los Alamos Centro Atomico, 1970); il cartello pubblicitario per il Lambrusco Maranini disegnato da Erberto Carboni (1922); la copertina de «Il Male»; l’imitazione di una lampada di Vico Magistretti firmata da un anonimo artigiano... Alla storia dello Csac rimanda invece più direttamente, dall’abside della chiesa, il monocromo Stanze eseguito da Vitone con le polveri dello Csac nel 2017, in occasione della sua residenza.
«Entrare nell’archivio — spiega Vitone — è stato come immergersi in un mare tropicale, di quelli noti per lo snorkeling. Impossibile non rimanerne affascinati, anche se non si riconoscono i pesci si è frastornati dai colori, dalle forme e soprattutto dalla quantità di animali da osservare. Eppure c’era una cosa che mi tornava sempre alla mente: un furgone bianco, parcheggiato nell’angolo più lontano del piazzale, come fosse abbandonato, stava lì con la sua scritta sulla portiera “Università di Parma” a testimoniare il suo ruolo passato».
Al di là del modello, quella del furgone sembra essere una presenza costante nell’arte contemporanea. Come testimonia Das Rudel (1969) ovvero Il branco, opera s i mbolo del l ’ i ntero l a voro di Joseph Beuys (1921-1986) a cui Vitone dichiara di essersi ispirato. Passata per il Guggenheim, per la Tate, per Documenta e oggi alla Neue Galerie di Kassel, l’installazione era destinata nelle intenzioni di Beuys a mettere in scena quell’energia «caotica e dinamica» che Beuys considerava essenziale per portare il cambiamento nella società. In che modo? Facendo cadere dal portellone, non opere e oggetti d’arte come per Vitone, ma ventiquattro slitte, simili a un branco di cani, ogni slitta dotata di un kit di sopravvivenza composto da un rotolo di feltro per calore e protezione, un pezzo di grasso animale per l’energia e il sostentamento e una torcia per la navigazione e l’orientamento. Beuys spiegava così la sua installazione: «Questo è un oggetto di emergenza: un’invasione del branco. In uno stato di emergenza, l’autobus Volkswagen è di utilità limitata e devono essere adottati mezzi più diretti e primitivi per garantire la sopravvivenza». Un’installazione ispirata all’incidente aereo di Beuys sulla Crimea durante la Seconda guerra mondiale, incidente a cui era sopravvissuto grazie a una banda di tartari che gli ricoprì il corpo di grasso e lo avvolse nel feltro.
Nel c a s o d i B e u y s e r a u n f u r g o n e Volkswagen, un mito extra-automobilistico, celebrato al cinema da Hanna-Barbera nel cartoon Scooby-Doo e da film cult come Lost, Ritorno al Futuro, Little Miss Sunshine. Ma anche il Ford Transit di Vitone ha avuto la sua (giusta) gloria cinematografica quando il regista Hany Abu-Assad nel 2003 aveva dedicato il documentario Ford Transit al mezzo di trasporto più diffuso nei territori palestinesi occupati. Un altro furgone (stavolta marca Mercedes-Benz) reggeva l’installazione site-specific firmata nel 2015 da Erwin Wurm (1954) per celebrare i trecento anni della città di Karlsruhe: un furgone rosso con la parte posteriore ricurva e le ruote poggiate a un muro.
Con un ex cellulare della polizia (altra variazione sul tema del furgone), parcheggiato nel Cortile di Palazzo Strozzi, a Firenze, iniziava la grande retrospettiva dedicata nel 2018 a Marina Abramovic (1954). Un furgone che Marina e Ulay (1943-2020), suo compagno di vita e di lavoro, acquistarono due anni dopo la loro conoscenza avvenuta nel 1975 e col quale condussero una vita nomade viaggiando incessantemente per l’Europa.
Nella biografia autorizzata firmata da James Westcott Quando Marina Abramovic morirà ( Johan & Levi editore, 2011) l’episodio è raccontato così: «Decisero di lasciare l’appartamento di Amsterdam e comprarono un furgone Citroën per andarci a vivere. A forma di scatola con i lati di metallo scanalato, era così alto che Ulay riusciva quasi a starci diritto in piedi. Lo dipinse con una vernice nera opaca, trasformando un veicolo già vistoso in un mezzo estremamente ambiguo: poteva sembrare un furgone dell’esercito o della polizia, o il mezzo di un commerciante in fuga. Misero sul retro un materasso, uno schedario per le loro scartoffie, una stufa e una scatola per i vestiti e lo usarono come casa mobile. Una volta personalizzato il veicolo, la coppia stilò un manifesto». Un «canone», proprio come Vitone.