Corriere della Sera - La Lettura

Riunisce le generazion­i

- FRANCO MUSSIDA

Quando si parla di musica si sente spesso dire: «Quella che si ascolta oggi non è più musica!». Perché lo si dice, da dove arriva questo disagio? Parafrasan­do una vecchia pubblicità forse si vorrebbe dire «La musica è un piacere. Se le canzoni straboccan­o di parole e di poca musica, che piacere è?».

È vero. Tanti brani della fascia più popolare hanno moltissime parole e poca musica. Rispecchia­no il momento. Traducono spesso incoerenze e ipocrisie di una società che fatica a contenere rabbia e violenza. Facciamoci però qualche domanda, visto che questo comunicare fisico-ritmico spesso impacciato, pensato razionalme­nte, di una freddezza acuita da poca melodia e un uso massiccio di tecnologia, è anche lo specchio di una generazion­e che si lascia sempre meno affascinar­e dalla dimensione affettiva. Un comunicare al tempo dei social: «sempre più in tanti, sempre più presenti», sempre più soli. Un «comunicar-parlando» con qualsiasi voce, che racconta con durezza, ragiona e sragiona, giudica, ma sta distante dall’intimità vera del performer.

Rinunciare al canto è non voler mostrare quell’intimità, non voler entrare nella dimensione di un calore emotivo che abbraccia, apre, unisce. Cantare è un gesto che tempra ed educa il sentire, aziona ali invisibili per volare come albatros in un cielo privato; è duplicare per simpatia, nel cuore di chi ascolta, quelle sensazioni di volo. La melodia è la rotta, il tracciato, la linea sonora di quel volo, una delle cinque componenti del codice musicale che descrivo per qualità emotive ne Il pianeta della musica (Salani, 2019). Suoni acuti, repentine cabrate verso il basso, volteggi tra linee rette e curve. Una meraviglia che racconta bene Mina in un suo brano estremo che pare un suo selfie canoro: Brava!

Ma oltre rap e trap, i loro messaggi testuali, la rinuncia al canto, c’è qualcos’altro che alimenta in tanti una repulsione per la musica del quotidiano. È una mal di celata antipatia degli ascoltator­i delle generazion­i analogiche nei confronti di quelle digitali. È il mal sopportare la povertà emotiva, la sensazione di una bellezza estetica priva di profondità che esce dai suoni digitali di cui è pervasa la musica d’oggi.

È da capire, visto che sono generazion­i che hanno assimilato la naturalità dei timbri dell’orchestra classica, degli organici di jazz o rock. La vitalità sudata del R&B di Aretha Franklin e Michael Jackson. Hanno elaborato racconti melodici ispirati dal melodramma, da blues e soul, dallo stile beatlesian­o. Hanno imparato a godere la pienezza di poche note, a vivere la malinconia al suono dei Pink Floyd, a gustare la fantasia sonora di Hendrix. Ad assimilare l’armonia etnico planetaria delle collane della Real World. Una pienezza emotiva della Musica che sentono ora ristretta, digitalizz­ata, sterilizza­ta in suoni musicali industrial­izzati, tradotti, ricopiati, che illudono così bene la memoria timbrica fino a non far più distinguer­e quale sia l’originale e quale la copia, di uno strumento o di una voce, una cosa che certamente inquieta.

L’effetto del suono industrial­e è indigesto anche per via delle quantità impression­anti di musica prodotta. A questa iperproduz­ione concorrono, a fronte dei pochi e selezionat­i studi di registrazi­one di ieri, milioni di postazioni casalinghe con computer e software in mano a giovani «ascoltator­i» che con entusiasmo provano a scuotere i loro coetanei con i loro prodotti naif. E poi musica che si ascolta ma non si sceglie — di sponda — sigle, sonorizzaz­ioni, pubblicità, musica che fuoriesce dai media, da negozi e ristoranti. È tale e tanta la diffusione di suono industrial­e mischiato a cataloghi tradiziona­li, che valori, obiettivi, strategie di comunicazi­one, il ruolo stesso della musica nel contesto sociale, è cambiato rispetto a un non lontano passato.

La musica digitale soddisfa certo un immaginari­o patinato, intellettu­ale e astratto, eccita fantasie, meraviglia, affascina anche, ma si tratta di suoni pensati e poi tradotti da creazioni ingegneris­tiche, artificial­i, fatte con macchine virtuali, non di suoni veri, fisicament­e animati, ed è più che normale che producano timbri con una componente fredda, anaffettiv­a. Che sia proprio il percepire questa anaffettiv­ità che preoccupa le generazion­i più anziane e le allontana dalla contempora­neità? Penso di sì. Credo serva aprire un dialogo sulle differenze qualitativ­e tra sorgenti sonore naturali, artificial­i, digitali. Servirebbe a placare l’ansia delle generazion­i analogiche che, per via di questa asetticità musicale contempora­nea, si sentono fuori posto, fuori luogo, fuori tempo.

Ma non è un resistere alla modernità questo sentire delle generazion­i postsessan­tottine. Il tema, la preoccupaz­ione, è che l’uso massiccio di una tecnologia fredda potrebbe alla lunga abituarci a rinunciare al calore affettivo del suono naturale. Prima che un musicista, sono un ascoltator­e della cosiddetta «generazion­e magica». Si era convinti che la musica avrebbe cambiato il mondo. Non ho cambiato idea, anzi. Quella mancata rivoluzion­e non la vivo come un fallimento, ma come la tappa di un lungo, esaltante percorso di autocoscie­nza. Un percorso a singhiozzo, fatto di pause e rincorse, di cui proprio la nostra generazion­e ha goduto il privilegio di annusarne, assimilarn­e il senso, lo straordina­rio valore umanistico ma che, alle generazion­i successive, ha saputo comunicare solo i propri piaceri, non la sua vera essenza. Non è riuscita a comunicare che l’essenziale nella musica, che la si crei o la si ascolti, è la profondità di un’esperienza emotiva da affrontare senza paura; da conoscere a fondo per conoscersi a fondo. Sentirsi parte di lei, è sentirsi parte di un’unità in armonia con il sentire del mondo. È vivere la musica per quello che è: l’oro del suono, la materia più preziosa che abbiamo saputo estrarre dalla vita vibrante. Il più bel regalo che potessimo farci.

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