Corriere della Sera - La Lettura
Riunisce le generazioni
Quando si parla di musica si sente spesso dire: «Quella che si ascolta oggi non è più musica!». Perché lo si dice, da dove arriva questo disagio? Parafrasando una vecchia pubblicità forse si vorrebbe dire «La musica è un piacere. Se le canzoni straboccano di parole e di poca musica, che piacere è?».
È vero. Tanti brani della fascia più popolare hanno moltissime parole e poca musica. Rispecchiano il momento. Traducono spesso incoerenze e ipocrisie di una società che fatica a contenere rabbia e violenza. Facciamoci però qualche domanda, visto che questo comunicare fisico-ritmico spesso impacciato, pensato razionalmente, di una freddezza acuita da poca melodia e un uso massiccio di tecnologia, è anche lo specchio di una generazione che si lascia sempre meno affascinare dalla dimensione affettiva. Un comunicare al tempo dei social: «sempre più in tanti, sempre più presenti», sempre più soli. Un «comunicar-parlando» con qualsiasi voce, che racconta con durezza, ragiona e sragiona, giudica, ma sta distante dall’intimità vera del performer.
Rinunciare al canto è non voler mostrare quell’intimità, non voler entrare nella dimensione di un calore emotivo che abbraccia, apre, unisce. Cantare è un gesto che tempra ed educa il sentire, aziona ali invisibili per volare come albatros in un cielo privato; è duplicare per simpatia, nel cuore di chi ascolta, quelle sensazioni di volo. La melodia è la rotta, il tracciato, la linea sonora di quel volo, una delle cinque componenti del codice musicale che descrivo per qualità emotive ne Il pianeta della musica (Salani, 2019). Suoni acuti, repentine cabrate verso il basso, volteggi tra linee rette e curve. Una meraviglia che racconta bene Mina in un suo brano estremo che pare un suo selfie canoro: Brava!
Ma oltre rap e trap, i loro messaggi testuali, la rinuncia al canto, c’è qualcos’altro che alimenta in tanti una repulsione per la musica del quotidiano. È una mal di celata antipatia degli ascoltatori delle generazioni analogiche nei confronti di quelle digitali. È il mal sopportare la povertà emotiva, la sensazione di una bellezza estetica priva di profondità che esce dai suoni digitali di cui è pervasa la musica d’oggi.
È da capire, visto che sono generazioni che hanno assimilato la naturalità dei timbri dell’orchestra classica, degli organici di jazz o rock. La vitalità sudata del R&B di Aretha Franklin e Michael Jackson. Hanno elaborato racconti melodici ispirati dal melodramma, da blues e soul, dallo stile beatlesiano. Hanno imparato a godere la pienezza di poche note, a vivere la malinconia al suono dei Pink Floyd, a gustare la fantasia sonora di Hendrix. Ad assimilare l’armonia etnico planetaria delle collane della Real World. Una pienezza emotiva della Musica che sentono ora ristretta, digitalizzata, sterilizzata in suoni musicali industrializzati, tradotti, ricopiati, che illudono così bene la memoria timbrica fino a non far più distinguere quale sia l’originale e quale la copia, di uno strumento o di una voce, una cosa che certamente inquieta.
L’effetto del suono industriale è indigesto anche per via delle quantità impressionanti di musica prodotta. A questa iperproduzione concorrono, a fronte dei pochi e selezionati studi di registrazione di ieri, milioni di postazioni casalinghe con computer e software in mano a giovani «ascoltatori» che con entusiasmo provano a scuotere i loro coetanei con i loro prodotti naif. E poi musica che si ascolta ma non si sceglie — di sponda — sigle, sonorizzazioni, pubblicità, musica che fuoriesce dai media, da negozi e ristoranti. È tale e tanta la diffusione di suono industriale mischiato a cataloghi tradizionali, che valori, obiettivi, strategie di comunicazione, il ruolo stesso della musica nel contesto sociale, è cambiato rispetto a un non lontano passato.
La musica digitale soddisfa certo un immaginario patinato, intellettuale e astratto, eccita fantasie, meraviglia, affascina anche, ma si tratta di suoni pensati e poi tradotti da creazioni ingegneristiche, artificiali, fatte con macchine virtuali, non di suoni veri, fisicamente animati, ed è più che normale che producano timbri con una componente fredda, anaffettiva. Che sia proprio il percepire questa anaffettività che preoccupa le generazioni più anziane e le allontana dalla contemporaneità? Penso di sì. Credo serva aprire un dialogo sulle differenze qualitative tra sorgenti sonore naturali, artificiali, digitali. Servirebbe a placare l’ansia delle generazioni analogiche che, per via di questa asetticità musicale contemporanea, si sentono fuori posto, fuori luogo, fuori tempo.
Ma non è un resistere alla modernità questo sentire delle generazioni postsessantottine. Il tema, la preoccupazione, è che l’uso massiccio di una tecnologia fredda potrebbe alla lunga abituarci a rinunciare al calore affettivo del suono naturale. Prima che un musicista, sono un ascoltatore della cosiddetta «generazione magica». Si era convinti che la musica avrebbe cambiato il mondo. Non ho cambiato idea, anzi. Quella mancata rivoluzione non la vivo come un fallimento, ma come la tappa di un lungo, esaltante percorso di autocoscienza. Un percorso a singhiozzo, fatto di pause e rincorse, di cui proprio la nostra generazione ha goduto il privilegio di annusarne, assimilarne il senso, lo straordinario valore umanistico ma che, alle generazioni successive, ha saputo comunicare solo i propri piaceri, non la sua vera essenza. Non è riuscita a comunicare che l’essenziale nella musica, che la si crei o la si ascolti, è la profondità di un’esperienza emotiva da affrontare senza paura; da conoscere a fondo per conoscersi a fondo. Sentirsi parte di lei, è sentirsi parte di un’unità in armonia con il sentire del mondo. È vivere la musica per quello che è: l’oro del suono, la materia più preziosa che abbiamo saputo estrarre dalla vita vibrante. Il più bel regalo che potessimo farci.