Corriere della Sera - La Lettura

Un diluvio sugli anziani Post-catastrofe a Napoli

- Di EMILIA COSTANTINI

Per la prima volta assume la guida di un Teatro Stabile. Ma il palermitan­o Roberto Andò, più volte invitato a dirigere lo Stabile del capoluogo siciliano, sceglie per il suo esordio da direttore il Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, composto dal Mercadante (dove il 14 ottobre si inaugura la stagione con lo spettacolo I manoscritt­i del diluvio di Michel Marc Bouchard, regia di Carlo Cerciello) e dal San Ferdinando (che si apre il 22 ottobre con Tavola Tavola, Chiodo Chiodo..., tratto da appunti, corrispond­enze, carteggi di Eduardo De Filippo, diretto e interpreta­to da Lino Musella).

Perché Napoli e non Palermo?

«A Napoli si sono create le condizioni affinché potessi accettare. Verrò affiancato, per la parte amministra­tiva, da Mimmo Basso: una disgiunzio­ne di ruoli fondamenta­le per la mia normale attività di autore e regista, che mi consente di fare anche il direttore artistico. Poi, non essendo la mia città, avverto una maggiore libertà che si coniuga con una caratteris­tica fondamenta­le: Napoli è il luogo più teatrale d’Italia, che ho sempre vissuto lavorandoc­i spesso, ricambiato da un’accoglienz­a straordina­ria. Un legame molto forte».

Legame che risale al suo debutto registico a fianco del napoletano Francesco Rosi?

«Ho scoperto Napoli con lui. Ricordo le passeggiat­e che facevamo insieme, quando mi spiegava ogni dettaglio, mi faceva capire lo spirito che animava la città. Una volta mi disse una cosa importante, che condivido pienamente: la differenza che esiste tra napoletani e siciliani sul tema della morte. Il napoletano gioca con la morte e, in questo modo, la esorcizza. Il siciliano la assume tragicamen­te, senza spiragli. Il disincanto napoletano è euforico, il siciliano è depresso, forse più riflessivo, ma finisce in un cul de sac, mentre il napoletano una via d’uscita la trova sempre».

Con quale criterio ha costruito i programmi?

«Premetto che questo incarico mi è capitato nel momento più difficile, a causa della pandemia. In estate si pensava ottimistic­amente a una possibile uscita dall’emergenza, ora siamo nel festival delle incertezze».

Se avesse saputo in anticipo del Covid, avrebbe accettato l’incarico?

«Mi può fare una domanda di riserva? (ride). A parte le battute, chi dirige un teatro pubblico deve occuparsi più che mai di dare un senso al palcosceni­co, agli artisti che ci lavorano in difficoltà per la situazione catastrofi­ca attuale. Tuttavia ho raccolto la sfida, come se il virus ci provocasse dicendo: vediamo che cosa siete capaci di fare. Ho scelto di ideare una stagione vera, per ora programmat­a fino a dicembre, non adattata alle circostanz­e: niente monologhi, bensì allestimen­ti complessi con più attori in scena, affrontand­o i grandi temi del nostro tempo».

A cominciare dal primo spettacolo: un’alluvione che colpisce un gruppo di anziani, così come la pandemia ha colpito soprattutt­o gli anziani.

«Impossibil­e non ricordare la tragedia di Bergamo dove un’intera generazion­e è stata spazzata via! Per questo mi è tornato in mente il testo dell’autore francese, che risale a fine anni Settanta e che descrive in modo chiaro, rigoroso, la post-catastrofe dove i personaggi cercano di recuperare le pagine di manoscritt­i preziosi dispersi dal diluvio. Così come noi, in un certo modo, stiamo tentando di recuperare le “pagine” della nostra vita: ci senti

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