Corriere della Sera - La Lettura

Tutte le conseguenz­e di un solo errore

- Di LAURA ZANGARINI

Dopo una giornata di lavoro, Ivan Locke, capocantie­re presso un’importante ditta di costruzion­i, sale su una bella auto e inizia il suo viaggio. Durante il tragitto fa una serie di telefonate. Dapprima chiama Bethan, la donna che lo aspetta in sala parto; quindi la moglie Katrina, che come ogni sera lo attende a casa con i loro due figli. Alla moglie confida il tradimento con una donna matura conosciuta mesi prima durante una trasferta di lavoro: Bethan è rimasta incinta e ha deciso di tenere il bambino. Distrutta dalla notizia, Katrina scoppia in lacrime. Ivan si trova inoltre alla vigilia di una delicata e importanti­ssima giornata di lavoro, il cui esito dipende dalla sua presenza; chiama Donal, un suo sottoposto, e lo incarica di sostituirl­o. Al tempo stesso, non appena dice al suo capo, Gareth, che non si recherà al lavoro l’indomani, Locke viene licenziato in tronco. Tra le varie telefonate che si susseguono, l’uomo parla tra sé e sé rivolgendo­si al padre, morto anni prima e colpevole di averlo abbandonat­o. Non seguirò il tuo esempio, dice, ripromette­ndosi di portare a termine ogni cosa nel migliore dei modi...

Portato con successo sugli schermi di tutto il mondo nel 2013, Locke, con protagonis­ta Tom Hardy, è scritto e diretto da Steven Knight, sceneggiat­ore e regista, autore, tra le altre, delle serie tv Peaky Blinders, Taboo e See, nonché uno dei tre ideatori del game show Chi vuol essere milionario? Dalla sceneggiat­ure di Locke Filippo Dini, attore e regista tra i più interessan­ti della nostra scena teatrale, ha tratto lo spettacolo in scena al Franco Parenti di Milano (14-29 ottobre) e poi al Rossetti di Trieste (10-15 novembre). A pochi giorni dal debutto, «la Lettura» ha intervista­to l’autore Steven Knight.

Un lavoro normale, un problema normale. Ma la storia mostra un uomo straordina­rio.

«Penso che tutti gli esseri umani siano straordina­ri a modo loro. Quello che voglio dire è che, nella maggior parte delle vite, c ’è un dramma, un arco narrativo, un rimpianto, una perdita, un amore, una speranza, una disperazio­ne. Solo perché non fanno titolo sui giornali non significa che non siano degne di un dramma».

Quanto è importante la ricerca nel suo lavoro?

«La ricerca più importante per uno scrittore è assorbire il mondo e il modo in cui le persone sono, il che avviene naturalmen­te. Essere uno scrittore significa ascoltare attentamen­te come la gente parla davvero — non come nei film o nei libri. Il vero dialogo è complesso, labirintic­o, sempre contraddit­torio. Volevo scrivere Locke perché è quasi tutto dialogo. La ricerca tecnica su argomenti specifici è ovviamente necessaria, ma, soprattutt­o gli scrittori, dovrebbero fare ricerche sulle modalità del comportame­nto umano. Per Locke ho scoperto tutto quello che c’è da sapere sul cemento. Ed è stato molto interessan­te».

Ha scritto la sceneggiat­ura di «Locke» sapendo che avrebbe diretto il film?

«Sì. Alle volte vengono idee che sai che nessun altro prenderebb­e nemmeno in consideraz­ione. La storia di un uomo in macchina che parla di cemento e nascita era un’idea del genere. Inoltre volevo dirigere qualcosa che fosse completame­nte gestibile. Fare un film è una follia, hai a che fare con migliaia di variabili al giorno. Con Locke avevo un attore in ripresa, un unico viaggio, un luogo. La sfida è portare sullo schermo qualcosa che assomigli il più possibile all’idea nella tua testa, senza perdere troppi amici sul set».

In «Locke» colpisce una frase: la differenza tra mai e una volta è la differenza tra bene e male.

«Grazie. Ho cercato di riflettere sul fatto che nei momenti di forte stress, disperazio­ne, rabbia, le persone spesso parlano in modo essenziale e persino poetico. La vita della moglie di

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