Corriere della Sera - La Lettura
Richard Ford Sono un patriota Salviamo l’America
poteri governativi si trasferissero in modo pacifico e regolare, e operassero con gradualità, tenendo conto di sfumature e ambiguità, mostrando pazienza per la complessità dell’impegno dei cittadini e le tensioni interne causate da inevitabili disaccordi. Come ha detto di noi e di altri la storica americana Anne Applebaum, le democrazie richiedono tolleranza. Quegli stessi presupposti e quelle istituzioni fondamentali che ci proteggono dalla tirannia, tendono anche a permanere nell’alternanza dei governi, e richiedono a un settore costituzionale (il legislativo, ad esempio) di agire scrupolosamente come supervisore e regolatore di un altro. Lo definiamo un equilibrio di pesi e contrappesi. Questo crea una macchina statale piuttosto vasta, ingombrante e irrealisticamente positivista. E nella sua ponderosità ingegnosa ma lenta, le nostre istituzioni hanno generato negli americani la fiducia (discutibile) che gli affari di Stato funzionino e debbano funzionare in modo visibile e prevedibile, mentre tutti noi svolgiamo i nostri affari privati con gioia e sicurezza. Si potrebbe dire che è una versione del «troppo grande per fallire». Ma sappiamo come va a finire. Una volta un amico canadese, mio e di mia moglie, ci disse scherzando, «voi americani siete l’unico Paese che ha preso sul serio la democrazia». (Non ci stava facendo un complimento). E io gli risposi, «Sì. Be’, più o meno. Lo suppongo, certo».
«Più o meno» perché assieme a queste radicate certezze illuministiche nutriamo anche un profondo sospetto nei confronti del governo, sentimento che abbiamo ereditato dagli inglesi. E una parallela ossessione per i diritti di proprietà, come se ci si potesse fidare solo della terra. E ancora in relazione a questo, una sfiducia nella reciprocità, una xenofobia dilagante ed endemica, una religiosità stucchevole e
poco profonda e la convinzione che i problemi umani complessi possano (e probabilmente debbano) essere «risolti» semplicemente spostandosi altrove, perché allora c’era un vasto altrove in cui andare. L’indipendenza, che è iniziata per l’America come un mantra con cui ci siamo liberati dall’oppressione britannica per essere ancora più liberi di affiliarci efficacemente con il mondo, si è calcificata fino a diventare una parola d’ordine per un isolamento mediocre e oscurantista. Qualcosa in tutto questo vi suona familiare? State vedendo un volto umano materializzarsi e venire fuori dal gorgogliante miscuglio?
Le democrazie, ovviamente, possono fallire e falliscono. Leggete Cicerone, come facevano i nostri padri fondatori. Il declino di una grande nazione non dovrebbe verificarsi con facilità. Ma l’America è un Paese giovane, non messo alla prova dal tempo e per molti versi poco autocritico o autocosciente. Solo tre guerre hanno visto battaglie combattute all’interno dei nostri confini — una combattuta selvaggiamente contro noi stessi e due contro i vicini più prossimi (tendiamo a non contare le guerre genocide che i bianchi hanno condotto contro i nostri predecessori indigeni). In questo modo distratto tendiamo a dare illusoriamente per scontata la nostra sovranità, stabilità e rettitudine, assieme alla libertà e alla vasta ricchezza distribuita in modo diseguale (moltissimi americani pensano ancora che abbiamo
vinto la guerra del Vietnam!). Le nostre istituzioni, che si basano sul delicato equilibrio di pesi e contrappesi, creano un grande Paese quando funzionano bene e tutti accettano, conoscono e seguono le regole (meno governo più libertà uguale felicità — il grande esperimento americano). Ma quelle stesse geometrie diventano precarie e suscettibili di esiti distrofici quando non vengono seguite fedelmente. Come succede ora.
Gli amici europei spesso mi dicono — non troppo sinceramente, credo — di «guardare all’America con speranza», come se guardassero all’ormai famosa city upon a hill, la città su una collina di John Winthrop. Temono però che stiamo andando incontro a un pericolo. Se le loro preoccupazioni non riguardano solo la disponibilità di contanti e le repliche di Happy Days, mi faccio delle domande. Non che ci augurino necessariamente il male. Mi sembra che abbiano abbastanza di cui preoccuparsi nei loro Paesi senza dover giudicare il mio. Ma potrebbero avere effettivamente bevuto il Kool-Aid dell’«eccezionalità americana» e probabilmente non avere letto tutto il sermone del pastore Winthrop. Ai suoi parrocchiani puritani del Massachusetts del XVII secolo — i presunti residenti della città su una collina — Winthrop predicava che «gli occhi di tutti sono su di noi. Tanto che se avremo mentito al nostro Dio riguardo a questo lavoro che abbiamo intrapreso e lo avremo indotto in questo modo a toglierci il suo attuale aiuto, diventeremo una favola in tutto il mondo». In termini laici: non dovete pensare che siamo esenti dalle calamità che altri hanno affrontato e di cui sono caduti vittime.
La storia americana è sempre stata un fragile romanzo in progress, con una fastidiosa incertezza su come andrà a finire, ma con l’esigenza che molte cose vadano bene e che non ci siano troppe cose importanti che vadano male, in modo da non deviare da una qualche trama ottimistica di base. Molti credono che questo andamento incerto sia una buona cosa. Ma ci sono altri punti di vista.
Nello stato d’animo quasi pre-apocalittico in cui