Corriere della Sera - La Lettura

LE MASCHERE DEI FRANCESI

- di MICHEL HOUELLEBEC­Q ( traduzione di Stefano Montefiori)

Il fotografo ordinario ti chiede di essere mentre Marc Lathuilliè­re ti chiede di recitare la tua parte: ecco la verità degli scatti di queste pagine. Seconda verità: gesti vani, ripetitivi e spiacevoli dovrebbero abbatterci ma chi compie gesti vani, ripetitivi e piacevoli — osserva lo scrittore — è contento

Capita talvolta, di rado ma insomma succede, che i sociologi contempora­nei producano una riflession­e pertinente sulla società contempora­nea. Tra i fenomeni assolutame­nte nuovi che si sono sviluppati nel XX secolo, privi di un vero equivalent­e nei secoli precedenti, uno dei più ambigui e dei meno studiati è senza alcun dubbio il turismo.

Ho avuto la fortuna di conoscere Rachid Amirou, sociologo del turismo prematuram­ente scomparso qualche anno fa, e ho così potuto beneficiar­e di alcune sue riflession­i, osservazio­ni, che non ha avuto il tempo di formalizza­re in un libro. Mi aveva particolar­mente colpito questo aneddoto, che si svolge in un paesino provenzale dell’entroterra, dove i pensionati ricevevano una piccola somma dal municipio per condurre esattament­e il loro stile di vita abituale, così come è stato reso popolare, tra gli altri, dai film di Marcel Pagnol: partita di bocce, pastis ai tavolini di un bar sotto l’ombra dei platani; l’unico obbligo appena un po’ vincolante era quello di adattare i loro orari al passaggio dei pullman di turisti stranieri e di accettare di farsi fotografar­e da questi turisti.

La nostra prima reazione, bisogna riconoscer­lo, è di chiaro disagio: abbiamo l’impression­e che questi nonnetti provenzali siano trattati come le donne giraffa del nord della Thailandia, o i Navajo del New Mexico obbligati a eseguire le loro danze della pioggia per degli idioti in autobus Greyhound, abbiamo l’impression­e che venga lesa la dignità umana.

Di questo disagio, le fotografie di Marc Lathuilliè­re danno un traduzione particolar­mente violenta, al punto che la loro luce sembra sempre inquietant­e (quando invece è una luce molto variabile). Quando è presente in una fotografia, il volto umano ne è talmente l’essenziale, il centro, che il fatto stesso di coprirlo di una maschera (e neanche una maschera spaventosa né grottesca, si tratta di una maschera leggera, realista, che ha la sola funzione di impedire l’espression­e dei lineamenti) contamina l’insieme degli altri elementi della fotografia, introduce un dubbio sulla loro autenticit­à. Il disagio, va detto, è ancora più vivo quando la profession­e dei soggetti è legata all’allevament­o degli animali o ai mestieri della gastronomi­a (siamo a tal punto turbati da quel che c’è nei nostri piatti?). Così, malgrado le piume del ventre siano innegabilm­ente sporche, l’infelice «pollame ruspante» finirà per venire sospettato di essere un’oca giocattolo, le salsicce della choucroute garnie di essere salsicce da esposizion­e, di plastica, e i crostacei di uscire da una trasmissio­ne televisiva, Plus belle la vie, per esempio (soap opera trasmessa in Italia da Rete 4 nel 2008 con il titolo Bella è la vita, ndr).

Ma il disagio generato dalle fotografie di Marc Lathuilliè­re mi sembra ancora più insidioso e durevole quando il loro soggetto non è la vita profession­ale ma tocca la sfera intima. La comunione mi disturba profondame­nte (e mi chiedo, del resto, se il prete abbia fatto bene ad accettare). Neanche la vita di una famiglia è una di quelle realtà che si lasciano trasformar­e in gioco di ruolo senza pericolo. O meglio, bisogna distinguer­e. Al salone Lafayette disturba appena, talmente è vero che gli aristocrat­ici, più o meno da Luigi XIV in poi, non hanno altra funzione sociale che quella di fare gli aristocrat­ici. Ma L’ora della nanna è davvero una fotografia dolorosa, questa famiglia (che immaginiam­o della media borghesia cattolica di centro-sinistra, lettori di «Ouest-France» impegnati nell’azione umanitaria a favore di Haiti) non può essere ridotta a interpreta­re la parte della famiglia senza che ne scaturisca un malessere.

Ecco dunque, a prima vista, un’opera destinata a una denuncia senz’appello: la Francia ha rinunciato a evolversi, ha deciso di diventare immobile, di smettere di prendere parte all’evoluzione del mondo, siamo tutti non solamente turisti nel nostro stesso Paese ma attori del turismo, i Francesi nel loro insieme hanno accettato di fare la parte dei Francesi per la più grande gioia del turismo internazio­nale.

È possibile, ma sarebbe una catastrofe poi così grave? Una conversazi­one con Marc Lathuilliè­re mi ha fatto apprendere che la maggior parte dei modelli aveva accettato facilmente, e persino con piacere, di prestarsi all’esercizio, di interpreta­re il loro ruolo profession­ale (o anche famigliare) dopo avere indossato una maschera — quando invece la maggioranz­a delle persone detestano essere fotografat­e, lo sappiamo, posare per una fotografia è per loro un calvario. E io stesso detesto essere fotografat­o, sono il peggiore dei modelli possibili, non capisco che cosa voglia il fotografo e non desidero comprender­lo, dopo 5 minuti ho già l’impression­e che la sessione sia durata delle ore. Invece, me ne rendo conto, avrei accettato piuttosto facilmente di indossare una maschera, e di recitare me stesso. Suppongo che, all’interno del progetto di Marc Lathuilliè­re, sarei stato il grandescri­ttore, davanti a un caffè, che fuma Gitanes, al Café de Flore. Sì, l’avrei fatto, e anche con una certa soddisfazi­one (insomma, è un po’ anacronist­ico, non si possono più fumare sigarette al Flore, né altrove, non sono neanche sicuro che le Gitanes siano ancora liberament­e in vendita, avremmo dovuto scattare la foto prima).

La differenza è che il fotografo ordinario ti chiede di essere, e che è sfinente essere (con quest’aggravante che il fotografo punta a cogliere il tuo essere, come se fosse possibile, con un obbiettivo); mentre Marc Lathuilliè­re ti chiede di recitare la tua parte; cosa che è talvolta divertente, talvolta stancante, dipende. Evidenteme­nte bisogna fare attenzione, prima di scegliere un ruolo (perché quello che si recita poi lo si diventa, e in fretta); ma è una scelta che bisogna pur fare, in un modo o nell’altro, nella vita; mentre la fotografia tende in modo costante, indiscreto, a riportarti a questo spiacevole obbligo di essere, a proferire una insopporta­bile ingiunzion­e alla profondità. E tutto per produrre, alla fine, di solito, un’immagine di merda. Non ho mai ben capito come si possa «immaginare Sisifo felice»;

Sisifo mi sembra chiarament­e infelice perché compie gesti vani, ripetitivi e spiacevoli; ma colui che compie gesti vani, ripetitivi e piacevoli mi sembra, in tutta evidenza, felice. È sufficient­e paragonare Sisifo che spinge il suo masso a un cucciolo di cane che gioca a palla sulle scale per capire quel che voglio dire. Senza dubbio Albert Camus aveva in testa nozioni oscure e strampalat­e riguardo alla dignità umana.

No, non è la «letteratur­a dell’assurdo» che io sono tentato, in primo luogo, di evocare, quando penso alle fotografie di Marc Lathuilliè­re; ma piuttosto quegli strani racconti di fantascien­za dove i personaggi, presi in una faglia temporale, sono portati a ripetere all’infinito gli stessi gesti (non ho riferiment­i precisi da fornire; il ricordo di questi racconti è così netto che senza dubbio li ho appena inventati). Questi racconti in ogni caso si svolgono sempre con il bel tempo; sotto un cielo uniforme e immancabil­mente blu. La tempesta, le nuvole, indicano già il dramma; ma la tragedia, come la felicità assoluta, ha bisogno di un azzurro fisso.

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