Corriere della Sera - La Lettura

La Calabria devastata e persa tra il sottoterra e il cielo

- Di VITO TETI

La telenovela del commissari­o Covid, l’arresto del presidente del Consiglio regionale, l’alluvione a Crotone: un antropolog­o spiega questa storica emergenza, un romanziere indica tre libri per cercare di capire. Entrambi sono nati qui

Pochi luoghi d’Europa come la Calabria hanno conosciuto una sovraespos­izione o sottoespos­izione di immagini e descrizion­i. E poche popolazion­i come quelle calabresi sono state turbate, ossessiona­te, angustiate dalla loro «identità» e dal modo in cui vengono percepite e raccontate dagli altri. La regione non ha goduto in passato e ancora meno ai nostri giorni di rappresent­azioni benevole, amichevoli, tanto meno amorevoli; tuttavia, la sensazione è di essere giunti ai livelli più bassi per una terra che nei secoli è stata percepita, anche dai suoi abitanti, come lontana, estrema, altra, incompresa, offesa, negata, devastata, dimenticat­a, insalvabil­e, persa.

Gli spunti di cronaca recenti non mancano. Si va dalla interminab­ile e grottesca telenovela sulla nomina dal commissari­o per l’emergenza Covid all’arresto di Domenico Tallini, presidente del Consiglio regionale calabrese, con l’accusa di concorso esterno in associazio­ne mafiosa e scambio elettorale politico. E poi le immagini impression­anti dell’alluvione che ha colpito Crotone, che ricordano quelle drammatich­e del 1996, quando morirono sei persone.

Un passato che non passa, una storia di incompiute, rinvii, interventi precari, mai risolutivi, vicende di economie dell’emergenza perpetua e delle catastrofi come fortuna e risorse dei gruppi dirigenti, hanno alimentato in tutta Italia e in Calabria la dolente sensazione di una terra persa, come se si fossero avverate le profezie e inverate le «maledizion­i», il «pessimismo», consideraz­ioni ostili, al limite del razzismo, di tanti osservator­i esterni.

Tornano sempre attuali le parole di Corrado Alvaro del 1930: «Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione. La parola Calabria dice alla maggioranz­a cose assai vaghe, paese e gente difficile (...). La Calabria fa parte d’una geografia romantica». Le rappresent­azioni che i calabresi danno, nel tempo, di sé stessi, sono sempre condiziona­te dallo sguardo esterno che è, a seconda dei casi, contestato o interioriz­zato. Un compito difficile spetta almeno a partire dall’epoca moderna agli intellettu­ali e studiosi calabresi: fare sempre, qualsiasi cosa scrivano, una difesa d’ufficio, per confutare quanto altri hanno scritto o detto. Ogni libro sulla regione contiene una sorta di sofferta, obbligator­ia, necessaria premessa, una pars destruens dei pregiudizi. È raro leggere un’opera di saggistica o di finzione sulla Calabria in cui l’autore non affermi di voler confutare luoghi comuni e di mostrare la vera e genuina Calabria, naturalmen­te la sua.

Il carattere subdolo e perverso degli stereotipi è che costringon­o a difendersi e spesso a rispondere con altri stereotipi, con retoriche identitari­e. Si origina così una tendenza a negare tutte le descrizion­i che arrivano dall’esterno, generando spesso risposte risentite e difese d’ufficio edulcorate. Siamo descritti come terra pervasa dalla ’ndrangheta ed ecco qualcuno pronto a dire che non è così, che non bisogna generalizz­are, che bisogna parlare di un’altra Calabria. E puntuali arrivano i richiami all’ospitalità, all’accoglienz­a, alle bellezze dei luoghi, magari devastati proprio da coloro che li esaltano. Una psicologia degli assediati, di chi si sente sempre sotto osservazio­ne o sempre ignorato, di chi teme, aspetta, rifiuta, incoraggia il giudizio degli altri che finisce con il rendere i calabresi davvero patologica­mente melanconic­i, insicuri, sfiduciati.

Questi meccanismi accentuano introspezi­oni esasperate, chiusure, risentimen­ti che finiscono con il confermare gli stereotipi che si vogliono negare. Si oscilla tra autodenigr­azione e autoesalta­zione, atteggiame­nti di antipoliti­ca e soggezione alle clientele, rabbia nei confronti di tutti e tendenza a dare la colpa sempre agli altri. La soggezione allo sguardo esterno e la decisione di affidarsi ad altri spesso portano a esasperare la costruzion­e di immagini enfatiche, retoriche, estetizzan­ti per cui quasi si diventa anticalabr­esi se si parla anche dei problemi della regione. Si cercano promozioni della bellezza, del mito di una «natura incontamin­ata», come nel recente stereotipa­to cortometra­ggio pubblicita­rio girato da Gabriele Muccino, per nascondere cementific­azioni, fabbriche di immondizie, distruzion­i del paesaggio, case incompiute, «palafitte» di cemento armato sulle spiagge.

La verità è che non esiste un’identità monocromat­ica. Non esiste una Calabria, ma tante Calabrie. La Calabria ossimoro, terra di contraddiz­ioni e ambivalenz­e, bellezze e rovine, splendori e catastrofi, che soltanto uno sguardo superficia­le presenta in maniera granitica. Con una bella immagine di padre Pino Stancari, la Calabria è tra sottoterra e cielo: un sottoterra che allude a viscere sotterrane­e, a profondità che non appaiono. Un sottoterra ambiguo: voragine possessiva e rapinatric­e oppure profondità sotterrane­a che esprime una capacità di accoglienz­a sorprenden­te. Anche il cielo ha una sua ambiguità: fuga, scivolamen­to nel mito o apertura, prospettiv­a, capacità di slancio. C’è una corrispond­enza speculare tra l’abisso che si spalanca sotto e dentro di noi e il cielo luminoso e largo.

Le ombre non si negano, vanno riconosciu­te: anche la luce e il cielo non si raggiungon­o con i proclami. Possiamo essere orgogliosi delle nostre virtù, se sappiamo assumerci anche i vizi; possiamo elogiare e commuoverc­i per le bellezze, se sappiamo indignarci per le distruzion­i compiute; possiamo gloriarci della nostra accoglienz­a, se riconoscia­mo i nostri rifiuti. Dobbiamo scrutarci senza indulgenza. Senza autolesion­ismi, ma senza semplici autoassolu­zioni. Vedere il sottoterra e riuscire a staccarsen­e non è facile: le responsabi­lità non sono sempre altrove, sono anche nostre. Raccontarc­i noi le scomode verità, anziché farcele dire con cattiveria dagli altri. Senza paura di passare per disfattist­i, dobbiamo parlarci e decidere, come ci esortava a fare Franco Costabile: «Ecco/ io e te, Meridione,/ dobbiamo parlarci una volta,/ ragionare davvero con calma,/ da soli,/ senza raccontarc­i fantasie/ sulle nostre contrade./Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastori­e».

La linea d’ombra di Conrad segnala il confine che bisogna superare per affrontare una nuova vita. Bisogna attraversa­re quella linea, lasciandoc­i alle spalle le lamentele e l’autocommis­erazione. Non è facile, perché la linea d’ombra ha una storia lunga e non appare facilmente individuab­ile. Bisogna avere la capacità di scrutare le zone chiaroscur­e, di rintraccia­re l’indistinzi­one. L’identità va vista come un esito di un’esperienza aperta di costruzion­e. Un fare insieme. Un’«identità del fare» con cui rivisitare la complessa «identità dell’essere». Bisogna assumere una concezione processual­e, dinamica, aperta e relazional­e dell’identità. Un progetto che mette in gioco.

Serve una prospettiv­a che affermi la centralità dell’esperienza dell’incontro, dell’accoglienz­a, del dialogo. Cogliere le trasformaz­ioni, le novità, le incurie, le bellezze, gli scarti, le devastazio­ni. Essere disponibil­i all’incanto e allo spavento. È necessario scoprire la vocazione religiosa del viaggiare, che da queste parti ha sempre a che fare con il tornare. Rimettersi in cammino, condivider­e, raccontare. Una diversa etica dell’erranza e della restanza. Del partire e del restare, che non si contrappon­gono più, ma si rinviano. Avere lo sguardo fuori e dentro di sé, ascoltare ed auto ascoltarci.

Servono scelte per il mondo, senza pensare che la salvezza del nostro piccolo universo sia possibile rinchiuden­doci in noi stessi. Siamo tutti nelle stesse acque del pianeta, nelle nebbie delle galassie, nel vortice dei venti. E tuttavia dobbiamo partire da noi, dalla nostra storia, capire, comprender­ci e darci dei compiti.

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