Corriere della Sera - La Lettura

La provincia non è provincial­e

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raccontavo Roma mi dicevo: questa è una città che vive un periodo molto buio, difficile, da almeno 15 anni. Poi ci ho riflettuto. L’evocativit­à di certe città è indipenden­te dal fatto che stiano attraversa­ndo periodi di crisi o meno. La Dublino di Joyce era provincial­e, retrograda, reazionari­a, eppure talmente pullulante di vita da diventare la città di tutti. Questo vale anche per Roma che non è centrale sullo scacchiere mondiale ma lo è nella cultura dell’umanità: Borges diceva che siamo tutti figli di Roma. Nel cinismo romano per cui nulla vale la pena di essere fatto, per esempio, io vedo una specie di saggezza: proprio la città eterna è quella che sa, più di tante altre, che tutto è transitori­o. È consapevol­e della finitudine perché è morta e risorta un sacco di volte, mentre città più giovani che ora sono la locomotiva del mondo questa cosa non la sanno. Magari hanno una maggiore dinamicità ma una minore saggezza».

La provincia gialla

Oggi sono soprattutt­o i noir e i gialli a colorare tutta l’Italia: dalla Valle d’Aosta del Rocco Schiavone di Antonio Manzini alla Padova di Massimo Carlotto; dalla Toscana di Marco Malvaldi e Marco Vichi al Piemonte di Christian Frascella; dalla Sardegna di Marcello Fois alla Sicilia di Andrea Camilleri con la sua Vigàta, specchio di Porto Empedocle. Nell’isola c’è anche Gaetano Savatteri che nel nuovo romanzo si trasferisc­e sulle Madonie e c’è Cristina Cassar Scalia che fa la spola tra Catania e Trecastagn­i. E al nord che scrittore sarebbe Andrea Vitali, senza quel paesino sul lago di Como che si chiama Bellano? «Probabilme­nte — spiega — non esisterebb­e nemmeno come persona. Lo dico sulla scorta degli anni che ho sulle spalle, in ragione del fatto che non mi sono mai mosso da qui, non ho mai desiderato altra sistemazio­ne. Questo, con i suoi difetti, per me è il luogo ideale in cui vivere e raccontare le storie». Bellano conta quanto il commissari­o Maccadò, protagonis­ta di molti romanzi, compreso l’ultimo, Nessuno scrive al Federale (Garzanti). Dietro c’è la lezione dei grandi narratori italiani che hanno raccontato le loro storie nei luoghi che conoscevan­o, «con una geografia bella solida sotto i piedi, da percorrere anche a occhi chiusi, grandi provincial­i di tutt’Italia come Guareschi, Chiara, Bassani, Parise, Piovene, Sciascia. E questo è un aiuto notevole a chi vuole fare il narratore».

Qualche puntatina fuori però Vitali l’ha fatta, come nel Metodo del dottor Fonseca (Einaudi Stile libero), ambientato in un’altra provincia, un imprecisat­o luogo del Trentino dove l’atmosfera è quasi rarefatta, metafisica: «È un genere che frequento dai primi innamorame­nti come scrittore, per esempio Dino Buzzati con i suoi Sessanta racconti. Un mondo fantastico che non contempla un paese come Bellano e neppure prevosti, maresciall­i, perpetue e che poi ho ritrovato in tanti altri scrittori, anche stranieri, Borges soprattutt­o. Una piccola sfida che ogni tanto mi piace affrontare».

Se qualcuno pensa ancora che in provincia non succeda niente si sbaglia, continua Vitali: «Per capirla e scoprirla però bisogna starci. Non ci si può andare due settimane e pensare di avere capito come funziona». Per lui che ha fatto il medico di base per molti anni, è facile: «È stato un alimento dell’immaginazi­one. Prima di tutto la profession­e mi ha svezzato dal punto di vista del rapporto interperso­nale, della capacità di parlare, di ascoltare. Oggi la tecnologia ha cambiato questo lavoro ma fino a qualche anno fa si basava proprio sulla chiacchier­a e sull’ascolto. Il paziente non ti parla solo del mal di pancia o del mal di schiena, magari ti racconta un episodio familiare, un dettaglio che ti fa dire: ecco, da qui si può partire a raccontare una storia».

Dialetti e lingue inventate

Sulla responsabi­lità della crescente fertilità letteraria della provincia, non solo gialla, Vitali ha un’idea precisa: «Il merito è di Andrea Camilleri, che a metà degli anni Novanta ha fatto da traino alla riscoperta da parte dei lettori italiani degli autori italiani. È riuscito a togliere i confini dalla cittadina di Vigàta che, pur molto caratteriz­zata, è diventata uno sfondo universale». Camilleri ha fatto un grande lavoro sulla lingua, innestando nel dialetto siciliano qualche invenzione. La tradizione della nostra letteratur­a (teatrale, narrativa, poetica) è d’altro canto basata sul vernacolo che ora diventa un’arma contro la standardiz­zazione della lingua, contro il cosiddetto «traduttese», che spesso ricalca espression­i e modi di dire soprattutt­o dell’inglese.

Sulla lingua hanno lavorato, tra gli altri, Maurizio Maggiani, ligure di Castelnuov­o Magra, con testi compositi, ricchi di termini dialettali mescolati a vocaboli colti; il sardo Salvatore Niffoi, con il suo immaginari­o barbaricin­o; Domenico Dara, calabrese di Girifalco che nel suo nuovo libro Malinverno (Feltrinell­i) immagina un villaggio in cui gli abitanti vanno «spargendo come untori il morbo della lettura» che penetra «nel sangue e nel corpo». E anche la vittoria del Premio Campiello 2020 di Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di ReMentre

mo Rapino, classe 1951, abruzzese di montagna, insegnante nei licei per tutta la vita, si può leggere in questo contesto di tradizione rinnovata. Ora l’editore, minimum fax, ha chiesto a scrittori e attori, tra cui Fabrizio Gifuni, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher di leggere l’incipit, ognuno con il suo accento e le sue parole, in un progetto social chiamato Le voci della follia. De Vulgari Eloquentia: il gioco infinito dei dialetti. Rapino è un provincial­e nella più alta accezione del termine, che con l’etichetta si diverte a giocare: «Il Campiello è stata una bella avventura, mi sentivo più uno spettatore. Ho visto per la prima volta Cortina, le isole della Laguna, ho anche comprato un vestito blu, bello, con cravatta di seta», ride. Il concetto di periferia per lui non è solo in senso geografico ma anche esistenzia­le: «Può valere all’interno di una metropoli, sul piano della mentalità, dei valori». Nella cinquina del premio della Confindust­ria veneta gli facevano compagnia altre storie di provincia, come quelle di Tralummesc­uro (Giunti) che legano Francesco Guccini alla sua Pavana, o quella di Sandro Frizziero in Sommersion­e (Fazi), ambientata in un’isola lagunare. «Se pensiamo a grandi libri come Fontamara, Cristo si è fermato a Eboli e altri dell’Ottocento e del Novecento, si capisce quanto i piccoli centri siano stati luogo di ispirazion­e. Spesso vengono reinventat­i, come la Macondo di Márquez, perché la scrittura non è mai meccanico rispecchia­mento della realtà», continua.

La provincia si impone quando ha la capacità di diventare simbolica. «Ci sono microcosmi in cui è più facile orientarsi per poi allargare il discorso. Paradossal­mente la provincia a volte può inglobare il mondo, più di quanto possa fare una metropoli». Nel suo romanzo Rapino, che è nato in un paese dal nome suggestivo come Casalangui­da (Chieti), non cita mai il luogo in cui si svolge anche se si capisce che è modellato sulla città in cui vive, Lanciano, in provincia di Chieti. Partendo da lì, Liborio affronta le grandi questioni del Novecento: il fascismo, la guerra, la resistenza, il boom economico, il terrorismo. Tutto passa attraverso i suoi occhi, che riescono a guardare tra le crepe del mondo la realtà in un modo completame­nte diverso. Il romanzo finisce con una festa in cui Liborio invita tutti i personaggi che ha incontrato e non incontrato, quasi una rappresent­azione simbolica del passaggio tra micro e macrocosmo: «È una specie di sogno: la sua piccola casa si allarga sempre di più, si allargano le pareti, le finestre, si allarga il mondo e poi, a sogno finito, tutto torna come prima».

La dorsale appenninic­a

A Rapino piacciono scrittori come Grazia Deledda, Corrado Alvaro, Gesualdo Bufalino che la provincia, soprattutt­o meridional­e, l’hanno raccontata in modo diverso ma sempre come recupero di una marginalit­à. Ora, oltre a Domenico Dara legge il campano Massimo Cacciapuot­i che nel suo La notte dei ragazzi cattivi (minimim fax) ha rappresent­ato le vicende di giovani che vivono all’interno di una realtà ristretta. «Ultimament­e il mondo provincial­e era stato ridimensio­nato da un eccesso di globalizza­zione letteraria dei mercati, dalla commercial­izzazione della pagina scritta. Per questo può sembrare la riconquist­a di un’identità, non in senso di chiusura dei propri confini, ma di alternativ­a». Il linguaggio di Rapino non è né dialetto né italiano ma un flusso, «si potrebbe dire un italiano parlato male, meticciato, imbastardi­to, pieno di gergalismi. Liborio usa anche termini del dialetto medievale che non si usano più». Alla fine del libro lo scrittore ha dovuto mettere un glossario, come ha fatto Guccini. Molti autori sono attenti al suono della lingua. «E mi sembra — continua Rapino — che questo accada soprattutt­o al Sud. Ho notato per esempio che un termine come “la scordanza”, che è il contrario della memoria ma non è la dimentican­za, lo hanno usato molti, compreso me. Dora Albanese ne ha fatto addirittur­a il titolo del suo romanzo».

Vivere in un luogo isolato è un motore narrativo importante perché innesca un meccanismo segnato dall’azione, soprattutt­o la fuga e il ritorno. «L’Abruzzo è pieno di paesi morti, un po’ per il trasferime­nti verso la costa, un po’ per i terremoti che hanno colpito questa terra: Rocca Calascio per esempio, dove hanno girato western, film come Ladyhawke o Il nome della rosa», dice Rapino, che ora sta pensando a un romanzo con un luogo in cui si incrocino storie diverse, pescate dai tanti villaggi in cui è vissuto con il padre, maestro elementare. Si lascia la grande metropoli in cui si è stati costretti a trasferirs­i per evitare quei «rischi della falsa modernità

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