Corriere della Sera - La Lettura
C’è Londra e poi tutto il resto (e quanto mordono le Ebridi)
La capitale è un mondo a parte, anzi un mondo e basta, rispetto al quale il Paese è provincia Una dialettica antica che la Brexit ha portato drammaticamente allo scoperto. E che si ripete, in piccolo, anche a Dublino
Parlare di provincia in Gran Bretagna vuol dire sostanzialmente parlare di ciò che non è Londra. Perché è inevitabile il rapporto, il raffronto, lo scontro, con la metropoli globale che risucchia verso di sé le energie del Paese, come una grande piovra che attira e respinge allo stesso tempo. In Gran Bretagna, volendo estremizzare, c’è Londra da un lato e tutto il resto dall’altro: e allora anche la letteratura «provinciale» vive di questa dialettica inaggirabile. Una dialettica che è culturale, sociale e politica: e che in questi ultimi anni non ha potuto non incrociarsi con lo psicodramma nazionale, la Brexit, che ha ipnotizzato il Paese e ne ha fatto emergere gli umori più profondi. Quelli che covano, appunto, nella provincia.
Il libro che in qualche modo ha intrecciato tutte queste suggestioni è Middle England di Jonathan Coe (Feltrinelli, 2018), laddove l’Inghilterra di mezzo del titolo è molto più di una collocazione geografica: è un topos mentale il cui sostrato è un particolare humus ideale e materiale. Quello dello Shropshire, in questo caso, dove sono collocati i protagonisti del racconto: una tragicommedia dal tocco leggero, in cui l’autore intreccia storie personali a eventi pubblici.
Ma ciò che il libro riesce a catturare soprattutto è la rabbia e l’ansia di milioni di persone comuni, fuori dalle metropoli, che aspettavano soltanto di trovare un modo di esprimersi: finché non hanno intravisto la Brexit. Quando gli abitanti del villaggio sentono parlare in lettone nel negozio (e credono che sia polacco), riescono a stento a trattenere la loro frustrazione; una delle protagoniste apprezza i discorsi razzisti di Enoch Powell e pensa che pure la sua donna delle pulizie lituana «se ne debba tornare a casa»; in una scena, il padre malato del protagonista chiede al figlio di portarlo a fare un giro attorno alla vecchia fabbrica di auto dove lavorava: che ormai è diventata un supermercato con tanto di «prosecco bar».
È il racconto di un mondo che sparisce, con i suoi luoghi e i suoi riferimenti: e nel quale gli abitanti non riescono più a raccapezzarsi. Ma se c’è un limite in questa narrazione è nella caratterizzazione stereotipata, quasi caricaturale, del «gretto provinciale»: dove forse sarebbe necessario un maggiore sforzo di empatia, pur nella messa a distanza.
Un’altra fetta di mondo travolta dalla globalizzazione è la vecchia fucina industriale inglese. È qui che è ambientato The Cut (Il taglio, 66thand2nd, 2019) di Anthony Cartwright, che svolge il tema non solo in termini di contrapposizione fra metropoli e provincia ma tramite la lente del conflitto di classe.
I due opposti punti di vista sono raccontati attraverso un uomo e una donna di differente estrazione sociale: Cairo, un ex pugile delle Midlands che si guadagna da vivere recuperando rame dalle industrie abbandonate, e Grace, una documentarista londinese che arriva da quelle parti per intervistare lui e i suoi amici alla vigilia del referendum del 2016. L’ostilità iniziale si trasforma in interesse reciproco e i due sono condotti a riesaminare le rispettive posizioni sulla Brexit.
Ma l’ambientazione del libro rappresenta anche il retroterra personale e familiare dell’autore: e il titolo, oltre che un riferimento alle ferite del protagonista e alle divisioni del Paese, è un’espressione colloquiale della regione da cui Cartwright proviene, le West Midlands, che indica i canali che tagliano il territorio e che serve a dare un preciso riferimento geografico. E così l’operaio Cairo è una versione accentuata di quella cultura, di quel modo di essere, di guardare al mondo: lui vede sé stesso come rivolto al passato, in una maniera che gli procura qualche conforto, solo che se si applica questo filtro su uno spettro più ampio il risultato può essere pericoloso.
La lotta di classe si intreccia — questa volta sotto le lenzuola — con la dialettica tra provincia e metropoli anche in Irlanda, in quello che è stato il successo più clamoroso della letteratura in lingua inglese degli ultimi anni: parliamo di Normal People di Sally Rooney (Persone normali, Einaudi, 2019), da cui quest’anno è stato pure ricavato uno sceneggiato televisivo che durante il lockdown ha tenuto tutta la Gran Bretagna incollata agli schermi di casa.
I protagonisti sono Marianne e Connell, due ragazzi di estrazione sociale opposta che seguiamo attraverso gli anni della scuola e dell’università. Lei è una ragazza ansiosa e fin troppo intelligente, magra, strana, ostracizzata ed emarginata dai suoi coetanei nella Galway rurale; lui è il suo opposto, bello, adorato da tutti, sicuro di sé, la stella della squadra di calcio. Ma Connell è un proletario, figlio di una madre single che fa le pulizie a casa di Marianne: dagli incontri casuali in cucina fra Marianne e Connell nasce un’intensa attrazione reciproca, in parte intellettuale e in parte sessuale.
Ciò che li accomuna è l’intelligenza, che fa da ponte sull’abisso sociale: è Marianne che incoraggia Connell a iscriversi al Trinity College di Dublino, la più prestigiosa ed esclusiva università irlandese, per studiare Letteratura. Quando i due protagonisti arrivano in città la loro breve storia d’amore è già finita: ma ciò che accade è il completo rovesciamento dei ruoli. Ora è Marianne il cigno, la stella che risplende, perfettamente a suo agio in un ambiente privilegiato, mentre Connell è lo sfigato che non sa stare al mondo, evitato per il suo pesante accento da campagnolo. Persone normali è una meditazione sul potere: sul modo in cui bellezza, intelligenza e classe sociale sono valute che fluttuano in maniera imprevedibile, a seconda che si spendano nel remoto villaggio o nella frenetica città.
In tutta questa letteratura, la provincia non è mai idealizzata, non è l’idillio in cui cercare rifugio: anzi, può essere una realtà a tratti brutale. E a volte il sogno bucolico può trasformarsi in un incubo: come racconta Tamsin Calidas nel suo memoir I am an Island (Transworld, 2020). L’autrice lascia agi e carriera dietro di sé a Londra per trasferirsi in un cottage in una delle più remote delle isole Ebridi, di fronte alle coste della Scozia: qui si dà all’allevamento di mucche e pecore, ma gli eventi prendono una piega inaspettata. Il marito non sopporta quella vita da eremiti e la lascia, lei si frattura tutte e due le mani, soffre la povertà e la fame, arriva a cibarsi di foglie e a meditare il suicidio.
Sullo sfondo di panorami magnifici continuamente evocati, di onde che si infrangono sulla scogliera e di cieli infinti, si svela il lato oscuro di quelle contrade: Tamsin soffre l’isolamento, l’ostracismo e gli abusi da parte degli abitanti dell’isola, che la vedono come «la straniera», «l’inglese», la donna single venuta lì a fare un lavoro da uomini. In un episodio sinistro, il montone allevato da Tamsin vince il premio alla fiera agricola del paese, per poi morire qualche settimana dopo: l’autrice sospetta che gliel’abbiano avvelenato.
Il libro ha suscitato molte polemiche, gli abitanti delle Ebridi non si sono riconosciuti in quella descrizione, che pure alla fine si vorrebbe permeata di affetto. Ma è il problema della provincia nella letteratura: la sua messa a fuoco richiede il distacco, la presa di distanza. E il quadro che alla fine si compone non è fatto per essere gradito da chi non si è mai mosso da quell’orizzonte.