Corriere della Sera - La Lettura
Mille Main Street contro Wall Street
Una rivoluzione, da compiere attraverso i libri. La scrittura come creazione di un «nuovo modello artistico del mondo». Il russo Michail Bachtin (1895 1975) è uno dei critici letterari più grandi del Novecento: è lui a rintracciare, nella sua analisi della poetica dostoevskijana, la novità fondamentale di un modello narrativo basato sulla «polifonicità», l’insubordinazione cioè delle voci dei personaggi a una visione unitaria, non un mondo «monologicamente percepito e capito» ma «una molteplicità di coscienze equipollenti con i loro propri mondi».
In Dostoevskij. Poetica e stilistica (Einaudi, 1968) Bachtin ci spiega come «la pluralità delle voci e delle coscienze indipendenti e disgiunte, l’autentica polifonia delle voci pienamente autonome costituisce effettivamente la caratteristica fondamentale dei romanzi di Dostoevskij. Nelle sue opere non si svolge una quantità di caratteri e destini entro un unitario mondo oggettivo e alla luce di un’unitaria coscienza poetica, ma qui appunto una pluralità di coscienze equivalenti con i loro propri mondi si unisce, conservando la propria incompatibilità, nell’unità di un certo evento». La coscienza dei personaggi non diventa «semplice oggetto della coscienza dell’autore». Solo Dante prima di Dostoevskij, sostiene Bachtin, è riuscito a farlo.
La letteratura americana, fin dalla nascita, è stata rivoluzionaria per necessità — la letteratura di una nazione nata da una rivoluzione, dal distacco dalle tradizioni europee e dalla monarchia inglese. Nel Vecchio Mondo, la provincia era il luogo delle vecchie idee, della stagnazione; le città il luogo del progresso. Basta leggere Mark Twain, per molti versi il padre fondatore della moderna letteratura americana (e indubbiamente il padre fondatore dell’idioma americano poi) per vedere come, per esempio in Wilson lo zuccone (1894), i personaggi della piccola Dawson’s Landing, Missouri, non hanno ereditato tradizioni di nessun tipo ma semplicemente sono parte di una nazione giovanissima, pragmatica, aperta al commercio (il paradigma della presunta pragmatica saggezza degli Stati rurali e delle province rurali ce la portiamo dietro ancora oggi, vedi il successo di Donald Trump nel 2016 e del partito repubblicano negli ultimi vent’anni).
La vita di Twain (1835-1910) comincia in un’America rurale vicinissima al modello dei padri fondatori (Thomas Jefferson immaginava una nazione di gentlemen farmer: schiavisti ma gentlemen, una delle sue tante stupefacenti contraddizioni) ma la vita di Twain finisce in un’America industriale, già indaffarata a costruire un impero e a trasformare il Novecento nel «secolo americano».
Dopo Twain, ecco gli anni Venti di Edith Wharton, Theodore Dreiser, ma soprattutto di Sinclair Lewis, l’unico dei tre a vincere il Nobel, soprattutto sull’onda del successo di Main Street. Lewis usa la piccola cittadina di Gopher Prairie, in Minnesota, per costruire quello che, da quel momento in poi, diventa un elemento fondante della letteratura americana: la small town come microcosmo, come parata «polifonica» — direbbe Bachtin — di personaggi, in una continua costruzione di una commedia umana che alimenta il modo in cui l’America — anche al cinema: basta pensare a Frank Capra e Preston Sturges — guarda sé stessa allo specchio.
Willa Cather in La mia Antonia (1918) dal Nebraska evoca addirittura Virgilio, e il libro III delle Georgiche («Perché sarò il