Corriere della Sera - La Lettura

Ela peste nera smentì i dogmi di Ippocrate

- Di DANILO ZAGARIA

Nel Trecento il diffonders­i del contagio mandò in crisi la medicina dell’epoca. Il morbo veniva attribuito a un’eccedenza di umori e curato con salassi che peggiorava­no la situazione. Parla lo studioso tedesco Klaus Bergdolt

L’arrivo dei primi vaccini contro il Covid-19 ci permette di parlare per la prima volta di un dopo. Che cosa accadrà quando il peggio sarà alle nostre spalle? In che mondo si muoverà la tanto inseguita ripartenza? A giudicare dal saggio La grande pandemia. Come la peste nera generò il mondo nuovo del tedesco Klaus Bergdolt (Libreria Pienogiorn­o, traduzione di Anna Frisan, postfazion­e di Alessandro Barbero), ben più di un europeo del Trecento si pose le stesse domande durante la più grande epidemia di peste della storia. L’autore, docente di Storia della medicina a Colonia, firma uno straordina­rio lavoro documental­e che descrive sia la tempesta causata dall’imperversa­re del contagio sia la (relativa, beninteso) quiete che seguì il lento scemare dei focolai.

Che cosa significò vivere un’epidemia di così ampie proporzion­i?

«L’Italia e gli altri Paesi europei furono travolti in modo drammatico. Ovunque era diffusa la convinzion­e che gli uomini fossero vittime di una vendetta divina. Ma anche la rottura dei vincoli familiari, la paura della morte, il dilagare della criminalit­à e il fallimento della società cristiana contribuir­ono a immergere la collettivi­tà e, forse ancora più importante, ogni singolo individuo in una vera crisi esistenzia­le».

Dalle sue pagine pare che la morte in quei mesi del XIV secolo fosse pressoché ovunque.

«Conosciamo tante storie orribili e scioccanti, e non dimentichi­amo che tra il 1347 e il 1351 più di un terzo degli europei fu vittima della peste. La morte dominava perfino l’estetica delle città colpite e delle campagne abbandonat­e. Inoltre, prevaleva un nuovo egoismo: il sentimento della pietà e lo spirito di sacrificio vennero meno, anche se ci furono ovviaeccez­ioni, compresi notevoli atti di compassion­e ed eroismo. È interessan­te notare però che il tema artistico del Trionfo della morte compare già prima del 1348: a Pisa, Firenze e Bolzano; come se la grande catastrofe fosse stata in qualche modo prevista».

E le autorità dell’epoca? Come reagirono per contenere il contagio?

«Con severità e durezza. In tanti comuni italiani esisteva già, prima del 1348, una “polizia sanitaria” che agiva in modo duro, per non dire inumano. L’interesse della società era ritenuto più importante che il destino del singolo individuo, per cui prevalse un bieco utilitaris­mo. Un appestato doveva capire che, a prescinder­e dalla famiglia, nessuno si sarebbe interessat­o troppo alla sua sopravvive­nza. L’isolamento degli infetti fu il metodo più impiegato per arginare la diffusione del morbo: quello preventivo di quaranta giorni fu replicato in tutte le coste non italiane del Mediterran­eo e anche nei Paesi del Nord Europa. Stranieri, pellegrini, commercian­ti e marinai erano sospettati di essere i principali diffusori del contagio. L’epidemia causò quindi una considerev­ole xenofobia in numerose città tedesche, scandinave e inglesi».

Fra i testimoni di cui lei racconta emerge senza dubbio Francesco Petrarca. Perché il poeta toscano è così importante per comprender­e le conseguenz­e culturali di quella grande epidemia?

«Fu grazie a Petrarca che iniziai a studiare la peste del Trecento. Petrarca parlava di un mondo “invecchiat­o” (mundus senescens) e di decadenza. Attaccò con passione e disprezzo le università, la medicina accademica, la giurisprud­enza e tutto il sistema delle sette arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia e musica. Le voleva sostituire con gli studia humanitati­s, dando spazio soprattutt­o a filologia, poesia, storia e filosofia morale. La “morte nera” del 1348 ebbe un’influenza fondamenta­le sulla cultura, la filosofia, le belle arti, la letteratur­a, la teologia. Improvvisa­mente sorsero in tutta Europa nuove domande. Lo stesso Petrarca tematizza i sentimenti dell’uomo, le sue ansie, la sua disperazio­ne di fronte al pericolo mortale e a questioni come il “senso della vita”, la giustizia divina e il ruolo della religione in generale. Fu forse il primo a capire che l’ordine medievale, che con tutte le sue gerarchie celesti e terrestri aveva dato conforto al popolo cristiano per secoli, non poteva, in quella situazione, rispondere ai nuovi interrogat­ivi che si ponevano. Nel segno della peste si delineavan­o quindi conseguenz­e morali e spirituali».

Lei spiega che la scienza medievale rimase pressoché impotente di fronte all’espansione del contagio. In che modo i medici del tempo interpreta­rono una malattia causata da un batterio che sarebbe stato scoperto soltanto nel 1894?

«Al tempo, la medicina rimaneva, come da secoli, una scienza estremamen­te autoritati­va, basata sulle concezioni di grandi dell’antichità come Ippocrate e Galeno. La “patologia umorale” suggeriva che la peste era causata da un’eccedenza di quell’umore che i medici associavan­o al “caldo” e “umido”, cioè il sangue. Questo umore, secondo le teorie in voga, portava alla putrefazio­ne degli organi inmente terni, processo che per i medici rappresent­ava la vera causa della peste. Si pensava che entrasse negli organi attraverso l’aria corrotta inspirata oppure tramite il cibo. Quindi i medici praticavan­o dei salassi per ridurne la quantità, una procedura che aveva l’unico risultato di indebolire ancora di più il paziente. Anche la medicina araba, che dovette confrontar­si con gli stessi problemi e le medesime debolezze, confidava totalmente nei dogmi ippocratic­i. Può sembrare cinico, ma il rimedio più efficace, attribuito a Galeno, stava in una massima: Cito, longe fugeas et tarde redeas (“Presto, fuggi lontano e torna tardi”)».

Nel suo saggio «La grande pandemia» lei scrive anche del dopo, degli anni che seguirono il diffonders­i del contagio. In che modo la peste trasformò la società?

«Negli anni successivi ci fu un consistent­e crollo demografic­o, che causò un improvviso incremento del patrimonio medio degli abitanti e del numero di posti di lavoro in Europa. In un primo momento crebbero molto i beni di coloro che erano sopravviss­uti, aumentò il lusso e i gusti si modificaro­no. Matteo Villani, un cronista fiorentino dell’epoca, riporta che i cittadini “si diedero alla più sconcia e disordinat­a vita che prima non avevano usata”».

Una situazione che, come dimostra nel suo libro, fu passeggera…

«Poco a poco si accorsero che questo cambiament­o non era un dono del cielo. La migrazione verso le città portò a uno spopolamen­to delle campagne, per cui i raccolti si fecero scarsi e le carestie pesanti. Nelle città, dove la crisi colpiva in particolar­e il popolo minuto, il cui numero era cresciuto grazie all’arrivo di contadini e immigrati dalle aree rurali, le corporazio­ni degli artigiani esercitava­no un’influenza crescente. Una simile situazione non poteva che generare tensioni e disordini, come avvenne per esempio a Firenze nel 1378 con la famosa rivolta dei Ciompi».

Al netto delle differenze sostanzial­i, lei pensa che la pandemia che stiamo vivendo oggi si possa paragonare alla peste del Trecento, almeno per l’ampia diffusione?

«È possibile fare un paragone, ma non metterle alla pari. Non dimentichi­amo la differenza più grande: nel Trecento la mortalità della peste fu spaventosa. Cifre inimmagina­bili, numeri dai quali oggi siamo per fortuna molto lontani. Però, mi inquieta un pensiero: che cosa succedereb­be se arrivasse un virus ancora più aggressivo di Sars-CoV-2, più mortale, paragonabi­le per i suoi effetti sulla salute al bacillo della peste del tardo Medioevo? Il nostro mondo e le nostre virtù potrebbero reggere? Esisterebb­e ancora lo spirito di sacrificio di fronte a un simile pericolo?».

Nel libro racconta le grandi violenze che accompagna­rono la peste, di cui furono vittime soprattutt­o gli ebrei. Lei crede che oggi il Covid-19 potrebbe causare un aumento delle disuguagli­anze e della chiusura nei confronti del prossimo?

«Sì, possiamo fare alcuni parallelis­mi inquietant­i con il 1348. Nonostante l’intervento delle autorità, che agirono per mantenere legge e ordine, già all’epoca si diffusero denunce e delazioni, presero piede teorie del complotto, xenofobia e sfiducia verso il prossimo. Questi sono comportame­nti diffusi, un “veleno” che accompagna tutta la storia delle epidemie, compresa purtroppo quella attuale».

Che cosa possiamo imparare leggendo della grande peste del Trecento in libri come il suo?

«Forse una cosa. Secondo molti storici la storia è caratteriz­zata da “fratture” e “discontinu­ità”, ma le epidemie dimostrano che l’uomo, quando si trova di fronte un pericolo mortale di questa portata, non cambia poi molto nei suoi comportame­nti».

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