Corriere della Sera - La Lettura
(e anche) Boetti Ordinare il disordine e viceversa
Nel 1972 inserisce una «e» fra il suo nome e cognome. Diventa «Alighiero e Boetti». È un gesto di poetica: così il nome diventa di sedici lettere ed è incasellabile in uno dei quadrati che sono la sua cifra artistica. E poi incarna i concetti di doppio, di simmetria, di specularità che Boetti (1940-1994) ha percorso con la sua arte e nella sua stessa persona. Un fotomontaggio del 1968 mostra l’artista torinese che tiene per mano un altro sé stesso, «i gemelli» differenti, uno ordinato e pettinato, l’altro scarmigliato. «In un bellissimo testo — spiega a “la Lettura” Angela Vettese, storica dell’arte e curatrice di mostre — racconta come Alighiero sia la persona privata, Boetti la persona pubblica. Che hanno la stessa individualità, ma inclinazioni diverse. In certi momenti la duplicità era nella sua stessa casa: lo studio di artista, sotto, con una confusione e un viavai di persone pazzeschi. Al piano di sopra, la casa con i bambini sempre ben vestiti e la prima moglie francese, Anne Marie Sauzeau, a cucinare manicaretti».
Il 16 dicembre Alighiero Boetti avrebbe compiuto ottant’anni. Per ricordare uno dei protagonisti dell’arte del Novecento, Sky Arte ha prodotto un documentario (Alighiero e Boetti. Sciamano e showman), con la regia di Amedeo Perri e Luca Pivetti. Andrà in onda sul canale satellitare mercoledì 16 alle 21,15. Nella stessa giornata, dalle 10 alle 18, il film sarà trasmesso in anteprima in un’inedita forma di «museovisione», ovvero sui siti internet di alcune fra le più importanti collezioni italiane di arte contemporanea: il Castello di Rivoli a Torino, il Centro Pecci di Prato, la GaMeC di Bergamo; il Madre di Napoli; il MAMbo di Bologna, il MAXXI di Roma. La proiezione sarà preceduta da una tavola rotonda virtuale fra il direttore di Sky Arte Roberto Pisoni e i responsabili dei sei musei. Nel documentario, l’artista è ricordato dai suoi familiari — i figli Agata e Matteo, la vedova Caterina Raganelli Boetti — e da tanti amici, galleristi, artisti: Salman Alì, Stefano Arienti, Stefano Bartezzaghi, Alessandra Bonomo, Giorgio Colombo, Flavio Favelli, Tommaso Pincio, Sissi e la stessa Angela Vettese.
Gli arazzi con le mappe o le sequenze di lettere colorate incasellate in quadrati, le opere fatte con la biro su carta che finivano per assomigliare a un cielo stellato, l’esplorazione artistica di mezzi inaspettati, come il servizio postale, sono alcune traiettorie che percorre. Spesso con ansia classificatoria, come nel grande arazzo con i mille fiumi più lunghi del mondo, ora del Moma di New York. Il suo è un doppio binario: regolare la complessità ma anche, al contrario, portare caos nella regolarità. «Ordine e disordine è stata la frase che più spesso ripeteva nei suoi arazzi, disposta in verticale, quindi con parole non immediatamente identificabili alla normale lettura. In tutte le sue opere Boetti mette un codice, anche semplice. Bisogna trovare la regola interna alle cose perché l’ordine ci appaia come un’illuminazione», spiega ancora Angela Vettese.
Ecco, così, che l’approccio giusto ancora oggi, «non è ingenuo, non si ferma alla bellezza multicolore e armonica delle sue opere che pure gli interessava molto. Ma ne va capita la chiave di lettura nascosta». Ci sono in Boetti aspetti tormentati, come l’uso della droga. E avventure affascinanti: nel 1971 parte per l’Afghanistan e a Kabul, fra l’altro, fonda un albergo, lo «One hotel». Attenzione a non considerare Boetti semplicemente un bohémien, sottolinea ancora Vettese. «In Oriente ci andava in cravatta, da imprenditore. Oltre all’albergo, aveva messo su una casa di produzione di arazzi a Peshawar, in Pakistan. Non c’è un Boetti genio e sregolatezza, ma un uomo preciso, capace di dare disposizioni».
Proprio il lavoro su più fronti ne fa un anticipatore: «È stato il primo ad avere dato importanza alla multispazialità, lavorando fra Oriente e Occidente, con una capacità di approcciarsi a più culture che gli derivava dalle tante letture». I suoi sono lavori di squadra: «Non è stato l’artista che fa un gesto sulla tela e si appaga di quello. Le opere sono espressione dell’équipe che guida: il cartografo a Genova, il grafico a Roma, chi si occupava dei ricami in Afghanistan. In questo ha solo Andy Warhol come antecedente. Anche Boetti aveva la sua Factory».
Incasellare, inquadrare, classificare in un’epoca predigitale: aspetti razionali che si mescolano (ecco di nuovo il doppio) a tanta poesia. «Si definiva mistico romantico. Con elementi dal sufismo e dalla musica. Una ricerca di bellezza — conclude Vettese — non solo di facciata ma evocatrice del senso misterioso delle cose. Gli piaceva pensare che le frasi nelle sue opere fossero micro-poesie, che l’armonia dei colori fosse evocatrice di armonia interiore».