Corriere della Sera - La Lettura
I fantasmi siamo noi
che osserva: «I morti hanno cose importanti da dire». A cominciare da questa...
fare il giovane moderno, il superuomo che si prende il posto mio nella televisione. Accomodati pure, a me quell’elettrodomestico non mi è mai stato simpatico. Non reagisci, eh? Ma mi hanno informato che tu sei così, incassi, e aspetti il momento giusto per colpire. Sono sicuro che vuoi litigare con me, ma stai fresco. Io se voglio litigare con qualcuno me lo scelgo!
Edoardo abbozza e prova a spostare il fuoco della conversazione che per lui è cominciata male.
Maestro, uno degli aspetti della vostra opera che mi ha sempre colpito è stata la capacità di scrivere testi che tecnicamente sono tragedie, eppure, nella percezione comune, vengono ricordati come commedie. Questa magia ha generato in me prima di tutto meraviglia e poi, con il tempo, è diventata insegnamento.
C’è poco da aggiungere, la tragedia si scrive facendo ridere. Non superficialmente ma con annotazioni, assurdi palesi. L’umorismo è una lama molto più affilata e tanto più puntuta che non la tragedia. L’umorismo picchia proprio e va assorbito dall’umanità. Ma quando il pubblico ride troppo a teatro, non pensa mai di avere riso di sé stesso.
Tradizione, traduzione e tradimento hanno la stessa radice etimologica e in Natale in casa Cupiello c’è sia la tradizione che il tradimento. Dirò di più: lei, Maestro, è stato il primo a tradurre/tradire la sua opera per il piccolo schermo. E due volte: nel 1962 e nel 1976. Se mi permette, proprio Natale in casa Cupiello segna la differenza di linguaggio tra teatro e cinema/televisione. Il teatro è in continuo mutamento, da una serata all’altra, da una stagione all’altra (e Natale in casa Cupiello nasce come atto unico farsesco, il secondo di oggi, per poi diventare a due atti e infine a tre con l’irrompere della tragedia), mentre la registrazione, il documento audiovisivo resta lì, immutabile, e diventa quasi un monumento o, come diceva André Bazin, la «mummia del cambiamento».
Un’opera ha bisogno di una profonda e continua mediazione, se no resta un vuoto e freddo documento. Mentre una nuova visione della mia opera ha luogo, viene sottoposto a esame non soltanto l’autore di quella visione nuova ma l’opera stessa subisce l’esame del tempo. Gli esami non finiscono mai.
Cesare Garboli, a maggio del 1976, scriveva a proposito di Natale in casa Cupiello: «Col tempo questa grande commedia ha imparato (ed era naturale) a “citarsi”. È diventata una commedia che si guarda, che osserva sé stessa. Oggi Eduardo la recita lasciando che infinite variazioni, come tropi di un antifonario, fioriscano al margine del testo. Uccide il copione e lo fa rinascere, improvvisando, salivando le battute e rallentando i ritmi dello “show” fino a “non recitarli”, pago