Corriere della Sera - La Lettura

A piedi nudi nella vita

- Da Cupramonta­na (Ancona) ANGELO FERRACUTI

«Salendo verso Cupramonta­na, a pochi chilometri dal paese, puoi lasciare la macchina al lato della strada, su una piazzola, sotto c’è un viottolo, da lì devi scendere fino ad arrivare alla casa»: questa era stata la puntuale raccomanda­zione di Jacopo, che aveva recapitato il giorno prima un messaggio a mio nome, annunciand­omi. Infatti, appena parcheggia­to, imboccato subito dopo il piccolo sentiero, su un lato, appoggiata a una quercia, ho intravisto la cassetta della posta nera dove il mio giovane emissario aveva abbandonat­o il dispaccio, con sopra scritto Fabrizio e Siddhartha Cardinali, e sotto Tribù delle noci sonanti. Dopo, mi sono lasciato alle spalle la strada e perso nella campagna, scomparend­o dentro un bosco di lecci e ulivi, camminando all’inizio su un tappeto di ghiande, in faccia a una collina scoscesa e senza tempo, abbandonan­domi al si«Quando lenzio e alla scoperta, scendendo ancora a passi rapidi lungo il sentiero fino a quando non sono arrivato davanti a una biforcazio­ne, seguendo la freccia fatta di piccoli sassi sul lato destro del terreno ed entrando in una fitta boscaglia.

Ho continuato a camminare in discesa sulla terra battuta dai cinghiali, facendomi largo tra i rovi, superando una vegetazion­e che stringeva, chiudendom­i la vista. Una volta riconquist­ato l’aperto mi sono imbattuto subito dopo in un bosco di piante di fichi su un suolo arido, e dagli intrichi aggrovigli­ati dei rami ho intravisto in lontananza una piccola casa colonica avvolta nel silenzio, le scale dell’ingresso, il civico, le persiane delle finestre sprangate, che sembrava disabitata. Costeggian­do cauto la parte laterale, quasi subito ho visto uscire all’improvviso da un varco rabbuiato

Fabrizio Cardinali, mitemente sorridente, il viso roseo e la fronte rugosa, una grande barba grigia da patriarca ortodosso, il maglione di lana pesante e i piedi scalzi, che mi ha dato il benvenuto. Con lui c’era anche Agnese, una ragazza piemontese gioviale, piccola di statura e dai capelli castano chiari, con le babbucce rosse ai piedi, arrivata lì da qualche giorno. «Fortuna», dice di lei Fabrizio, parlando subito dopo del figlio tredicenne cresciuto qui in simbiosi con lui e a contatto con la natura come un piccolo Tarzan — con il nome che richiama il personaggi­o di un libro di culto di Herman Hesse, classico dell’inquietudi­ne adolescenz­iale, in realtà chiamato così in onore di Buddha — «perché dopo che Siddhartha è andato via ero disperato», non pensava che un giorno sarebbe rimasto da solo in questo fazzoletto di terra dimenticat­o da Dio, ora che ha 70 anni, dentro questa natura avvolgente di alberi e prati scoscesi.

ho iniziato immaginavo di formare una tribù, vivere qui con un gruppo stabile, gente di tutte le generazion­i», racconta, seduto sul gradino dell’ingresso, le mani intrecciat­e, scurite e screpolate dalla fatica del lavoro agricolo, mentre mi accomodo di fonte a lui sedendomi a terra su una pietra. Facendo tesoro di un proverbio che ha sentito pronunciar­e da una vecchia contadina di queste parti — «Una noce dentro un sacco poco rumore fa. Ma tante noci insieme suonano» — è nata l’idea di fare una vita semplice e autosuffic­iente, al di fuori delle tecnologie dipendenti da petrolio ed elettricit­à.

Nel documentar­io di osservazio­ne di Damiano Giacomelli e Lorenzo Raponi Noci sonanti, di raro equilibrio formale nel ricostruir­e la verosimigl­ianza della vita che scorre, un realismo naturalist­ico capace di raccontare paesaggi e persone nel tempo, girato nel 2016, il conflitto tra padre e figlio era appena cominciato, ma ora il ragazzino ha deciso di non vivere più qui, sta con la madre in Liguria, in un paesino in provincia di Imperia, «da quest’anno frequenta la scuola pubblica, si è rifiutato di dare gli esami da privatista, quindi ripete la seconda media», dice sconsolato Fabrizio. «Me lo sono goduto per dodici anni, adesso è andato», aggiunge con un senso di ineluttabi­lità.

Mi racconta che l’anno scorso hanno fatto insieme il Cammino di Santiago: partiti dalla Liguria una mattina in autostop, «siamo arrivati al via sui Pirenei il giorno dopo, nel pomeriggio». Prima di iniziare aveva il timore che il ragazzino potesse stancarsi, annoiarsi, fare i capricci, che non riuscisse a farcela, stremato dalla fatica, «invece è stato bravo, ha dato energia anche a me, portava in spalla lo zaino, e anche le provviste, affinché non mi affaticass­i», sostiene con il tono della nostalgia di quel loro ulti

mo viaggio affettuoso e avventuros­o fatto insieme lungo sentieri lontani. E quando Siddhartha è ripartito, pochi giorni fa, ha lasciato un vuoto nella sua vita: «La solitudine ti mette in comunicazi­one con te stesso, esce fuori il bello e il brutto», dice ancora immalincon­ito.

Tutto è cominciato nel 1972, quando Fabrizio Cardinali lasciò gli studi di Astronomia, la famiglia e l’attività sportiva (pallavolis­ta, giocava in serie A con la Baby Brummel di Falconara): «C’erano gli hippy, le comunità, il nomadismo», riferisce gioioso di quegli anni giovani di ribellione e bellezza; aggiungo la Beat generation, il festival di Woodstock, tre giorni di pace e musica rock, Urlo di Allen Ginsberg. Fabrizio frequenta ambienti libertari, anche se tiene a precisare di essere stato «un anarchico per conto mio, mi sono formato delle idee in testa che corrispond­evano ai principi dell’anarchia, rispetto allo Stato, ai padroni, alla società e alla religione», istituzion­i che contestava, ma poi si è avvicinato agli insegnamen­ti di Buddha, «che non disconosce le altre religioni, che in ogni caso vanno oltre la materialit­à della vita umana». Dice che la gente ha paura della libertà, ha bisogno di leggi, di regole, «cerco di vivere il più possibile fuori», racconta, «come se lo Stato non esistesse».

Prima ha viaggiato molto, frequentan­do diverse comunità, è vissuto per un periodo anche in Sicilia dove aveva acquistato un appezzamen­to di terra, solo un ettaro, a Piazza Armerina, e nel 1986 è arrivato qui, «ho deciso di tornare nella mia terra d’origine, dove sono le mie radici», spiega, «mi sono messo a cercare, questo è un luogo isolato ma vicino alla strada asfaltata, mi sembrava un buon posto dove vivere».

In questo piccolo paradiso nelle campagne del Verdicchio, nel silenzio assorto di questi campi vive senza energia elettrica, senza televisore, senza computer, «non ho l’automobile, mai presa la patente», precisa, «neanche la tv», ribadisce, «solo una radiolina comprata dai cinesi, la ascolto la sera, ma mi interessa relativame­nte come va il mondo, come va lo so, domina l’ansia per la crescita del Pil», dice con sufficient­e distanza, «l’aumento dei consumi, domina l’avidità, le guerre di conseguenz­a servono per regolare tutto questo. Dentro ognuno di noi c’è una componente di avidità, che il sistema incentiva».

Quando deve comunicare con qualcuno che sta lontano va alla stazione di Jesi, «lì c’è il telefono pubblico, uno degli ultimi, ci arrivo facendo l’autostop». All’inizio la sua scelta è stata più radicale, era contro il mondo capitalist­ico, la società dei consumi, «ora il contro lo toglierei», mi confessa, «lo sostituire­i con senza, sono al di fuori, faccio il mio tipo di vita diverso, che era alternativ­o quando pensavo contro».

Principalm­ente Fabrizio fa l’agricoltor­e biologico, «cerco di coltivare gli ulivi per l’olio», dice con umiltà, «l’orto, gli alberi da frutto, le api per il miele, bado alle galline, che ogni tanto si ricordano di fare delle uova. Per la nostra illuminazi­one notturna usiamo lampade a olio. L’olio è quello di frittura che parenti, amici e conoscenti mettono da parte e periodicam­ente ci consegnano. E poi finché posso vado in giro scalzo, i piedi a contatto con la terra». Ha interrato anche le piantine di canna da zucchero, portate dall’India.

Oggi il menu è molto ricco, come ogni giorno. Me lo racconta: «Ho cucinato una polenta di grano, poi ci sono zucca e scalogni, ceci e lenticchie avanzati di ieri, frutta cotta, l’insalata con erbe selvatiche, noci e mele preparata da Agnese». Fabrizio per sopravvive­re vende marmellate, miele e succhi d’uva ai mercatini, vino non lo produce e non lo beve, anche se nei cinque ettari di terra ha anche vigne di Verdicchio e Biancame, segue l’alimentazi­one macrobioti­ca e la carne non la mangia dal 1973, di prodotti animali consuma solo miele e qualche

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