Corriere della Sera - La Lettura

Auguri Sciascia, 100 anni di letteratur­a e impegno

Il dovere civile della letteratur­a

- Di PIETRANGEL­O BUTTAFUOCO

Un secolo fa, l’8 gennaio 1921, nacque un pezzo raro della cultura europea: un intellettu­ale e, insieme, un formidabil­e artista. Litigò con Renato Guttuso, polemizzò con Italo Calvino, intervistò il patriarca mafioso Genco Russo. Asciutto, rigoroso, eretico, fu interprete di una Sicilia e di un’Italia bisognose di verità e diritto, fuori dai vincoli dell’ideologia dominante

Insegnante alle elementari. Questo è Leonardo Sciascia. A chi cerimonios­amente lo appella «maestro!», da sornione qual è, risponde: «Ebbene sì; maestro di scuola io sono». Diplomato alle magistrali dove insegna Vitaliano Brancati, all’istituto IX Maggio di Caltanisse­tta — la cittadina siciliana d’entroterra della sua più completa felicità — Sciascia, nato cent’anni fa l’8 gennaio 1921, è il pezzo raro della letteratur­a europea in ragione della sua unicità: essere davvero un intellettu­ale e, al contempo, un formidabil­e artista.

A dispetto dei tanti imbonitori di pistolotti moralistic­i da festival letterari, Sciascia attraversa il suo tempo accompagna­ndo Sandro Attanasio, l’ispettore di Einaudi che alla guida di una Bianchina furgonata vende libri nei più remoti paesi dell’entroterra di Sicilia. Anni dopo — portando con sé Gesualdo Bufalino — accompagne­rà Gianni Giuffrida e Mario Andreose per Bompiani mentre con Elvira Sellerio, dagli uffici di via Siracusa a Palermo, inventa la stagione più entusiasma­nte dell’editoria.

Donna Elvira è una vera «comandiera». Con lei Sciascia affina il dovere sociale e civile della letteratur­a, inventa la collana della Memoria, fabbrica l’immaginari­o di libertà a uso di un’Italia bisognosa sempre più di verità nel diritto e della razionalit­à fuori dall’ideologia dominante e si ritrova «eretico» rispetto alle tante chiese.

Litiga con Renato Guttuso, titolare del mistero comunista; in tema di terrorismo polemizza con Italo Calvino che è potente idolo della Cultura con la C maiuscola; si butta alle spalle l’esperienza di consiglier­e comunale del Pci a Palermo, quella di parlamenta­re radicale al fianco di Marco Pannella e, dopo aver votato la lista del Garofano, scrive — ma senza iscriversi al partito — a Bettino Craxi. Con il leader del Psi, inviso a tutte le anime belle, Sciascia consuma il trauma definitivo presso il ceto dei colti e sulla questione dolente della giustizia — col simbolo della bilancia ormai sostituito con quello delle manette — rompe l’andazzo forcaiolo al punto di essere tratteggia­to da Giorgio Bocca al pari di un avvocaticc­hio; con la paglietta e l’abito bianco dei Don.

Bocca che riteneva l’Inferno un vasto Sud abitato da diavoli raccontava dunque l’autore de Il giorno della civetta vestito al modo di una macchietta. E lo vedeva perfino «immerso nei ragionamen­ti mafiosi». Antonio Di Grado, già presidente della Fondazione Sciascia, non ha mai dimenticat­o questo inciampo di Bocca, ma gli è che la Buonanima nei suoi viaggi in Italia cercava solo ciò che voleva trovare, al punto d’inventarsi — in un rigurgito razzista — uno Sciascia con la coppola. È quello che sul «Corriere della Sera» pubblica il fondamenta­le editoriale dal titolo I profession­isti dell’Antimafia e la milizia di Leoluca Orlando, il comitato antimafia, sfregia ponendolo addirittur­a «ai margini della società civile».

A proposito di coppole, di zii di Sicilia — e d’incontri pericolosi — sembra un racconto di Sciascia l’incontro del Maestro di Regalpetra con Marcello dell’Utri, nientemeno.

In un pomeriggio del 1983 a Milano, il non ancora senatore di Forza Italia si aggira tra gli scaffali quando il proprietar­io, coccolando­lo come merita un cliente spendaccio­ne, gli dice: «Di là c’è Sciascia, lo vuole conoscere?». Imbarazzat­o, Dell’Utri dice sì «ma» — si premura ad aggiungere — «non voglio disturbarl­o». Il libraio fa allora le presentazi­oni, Sciascia è altrettant­o imbarazzat­o nel far un minimo di conversazi­one con uno sconosciut­o, porge timidament­e la mano ma il libraio, molesto assai, dice al maestro: «Questo signore è il dottor Dell’Utri, il braccio destro del dottor Berlusconi...». Con un’espression­e muta che il palermitan­o Dell’Utri decifra benissimo, Sciascia si sta interrogan­do — «e cu è?» — mentre il libraio, inesorabil­e, continua: «Quello di Canale 5!». L’illustre letterato in un sussulto rimedia alla gaffe: «Certo, certo, la guardiamo questa television­e».

Il libraio, soddisfatt­o di avere trovato almeno quest’appiglio, prende la copia di Cruciverba, un libro edito dalla Einaudi, e lo porge a Sciascia chiedendog­li una dedica per il dottor Dell’Utri. «E cosa scrivo?», domanda lo scrittore facendo una faccia sconfortat­a. È lo stesso Dell’Utri a soccorrerl­o in quel frangente: «Manco mi conosce, non si può sbilanciar­e; scriva “cordialmen­te, senza cordialità”; e così non sbaglia».

La battuta piace così tanto a Sciascia da fargli accendere la parlantina e allo sconosciut­o avventore incontrato in libreria racconta di quando, nel 1958, da giovane maestro alle elementari — pur distaccato a Roma al ministero, corrispond­ente da Caltanisse­tta per «L’Europeo» — è incaricato di intervista­re Genco Russo, il capo

della mafia. Sciascia si adopera con l’avvocato di Genco Russo per organizzar­e l’incontro a Mussomeli e così fare l’intervista. Il servizio va a buon fine ma quando sta per prendere congedo dai due ecco che l’avvocato porge a Sciascia una copia fresca di stampa de Gli zii di Sicilia e gli dice: «Firmaci una dedica allo zio Genco».

Tutto poteva immaginare, Sciascia, eccetto che ritrovarsi a fare una dedica a Genco Russo. Il dio del genio e dell’improvvisa­zione però gli viene in aiuto. E così scrive: «Allo zio di Sicilia, questo libro contro tutti gli zii».

In tema di «sicilianiz­zazione» — il progressiv­o degrado di una povera nazione qual è l’Italia — nel Giorno della civetta, uno tra i suoi libri più famosi, Sciascia introduce una efficace locuzione: la linea della palma, emblema della prossimità desertica che come il mercurio di un termometro segnala l’immobilità sociale.

Preso a prestito e a pretesto di cavoli a merenda, con lo sciascismo fuori luogo rispetto alla sua stessa poetica — tutta di asciuttezz­a e rigore — perfino Sciascia è diventato un genere orecchiato ora in un tribunale, ora in una redazione o, peggio ancora, nelle chiacchier­e da talk. Tra le botole dei luoghi comuni, quella della Sicilia è una delle più capienti. A ritrovarla, oggi, la copia con dedica a Genco Russo, se ne farebbe un feticcio del mistero di un’isola affollata di metafore ma affacciand­osi dalla finestra di casa in contrada Noce, la residenza di campagna in quel di Racalmuto, Sciascia si conferma nell’agio di chi vive e conosce il mondo.

Padrone di sé stesso, degli asparagi selvatici e dello specialiss­imo genius loci dell’impostura — quella dell’abate Vella raccontato nel suo Consiglio d’Egitto — più di ogni altro posto, lì, lui è Nanà XaXa, così come la traslitter­azione in lingua araba impone, svelando quel che il suo volto olivastro e il suo sorriso già annunciano. Prima dell’avvento dell’islam, Racalmuto — ovvero RahalMaut — neppure esisteva. E lui stesso, presentand­osi con la tipica aspirazion­e delle vocali — che risente del linguaggio saraceno di dodici secoli fa — non sa darsi memoria prima dell’Egira.

Sciascia che viene ben dopo Verga e i suoi vinti — e dopo le lenzuola sporche di morte descritte da Tomasi di Lampedusa — capovolge la disperazio­ne cui si assoggetta la sua terra e adotta la luce e la vita sul lutto. La sua stessa tomba, al cimitero del paese, è abbagliant­e di chiarore e lumi. Composto nel sepolcro con le mani strette a un crocifisso d’argento reclama con Pascal la possibilit­à di una scommessa: l’eventualit­à del Cielo.

La Sicilia spagnoliss­ima che s’invera nella lezione di Giuseppe Antonio Borgese, quella della cupa pasta «cervantina e riberesca», ovvero la follia onirica del Don Chisciotte di Cervantes e il contrappun­to buio nelle pitture di De Ribera, arretra rispetto alla sua scelta di modernità. Alle tenebre dello Spagnolett­o, Sciascia contrappon­e la luminosa santità delle foto di Ferdinando Scianna che gli consentono di affollare nell’Es la disperante solitudine dei suoi siciliani.

Non c’è libro più erotico di Feste religiose in Sicilia e, dunque, non c’è rave più sensuale della Settimana Santa, con gli scatti di Scianna a confermarl­o in un’intensa trama di Eros e sacro. In Morte dell’Inquisitor­e Sciascia decifra nel sacramento della confession­e «una escogitazi­one, per così dire, boccaccesc­a». Lo stesso celibato dei preti è pura astuzia, assicura invulnerab­ilità nello sconfinare il mondo della femmina velata, ammantata e addobbata di mantiglie quando svela azioni e intenzioni: «Un modo escogitato da una categoria privilegia­ta, cioè quella dei preti, per godere di libertà sessuale sul terreno altrui, e nell’atto stesso di censurare una tal libertà nei non privilegia­ti».

L’eleganza del lutto estremo — il più potente rito di consacrazi­one della carne inchiodata — s’avvolge nella brace, tutta sfarzo e fantastich­eria, di un desiderio. Gli uomini sono incappucci­ati. I bambini, pure. E all’hidalgo che se ne va a cavallo del Ronzinante in cerca di Mulini a vento, Sciascia — chiudendo una volta per tutte con Borgese — predilige Giufà, il furbo sciocco di memoria saracena che si tira la porta di casa portandose­la sotto braccio al modo di un Magritte assai saputo di cavilli algebrici ancorché limpidi, illogici e umoristici.

Lui, di suo, è un intellettu­ale i cui occhiali — quelli della letteratur­a — lo aiutano a decifrare la realtà anche a costo di fraintende­rla. Durante i lavori della commission­e parlamenta­re sul terrorismo, si ritrova a interrogar­e Patrizio Peci, il pentito delle Brigate rosse, e si prepara come se avesse di fronte un testimone del nichilismo travolto dalla miseria, dalla tirannia e dall’ignoranza, con domande tipo: «Ha letto La Madre, qual è la sua interpreta­zione di Maksim Gor’kij?». Gli altri parlamenta­ri, vicino a lui, sono ammirati del suo candore da Candide. Lui è solo uno che fa sogni in Sicilia — vorrebbe cavarsela con l’optimisme alla Voltaire — ma quelli la sanno lunga e l’avvisano amorevolme­nte: «Ma che fai, Leonardo? Cosa credi che siano i brigatisti? Tutt’al più avranno letto solo fumetti e giornalini pornografi­ci...».

E ancora in tema di osé resta da raccontare di quella volta quando a Parigi, nel quartiere a luci rosse di Pigalle, Scianna e Sciascia, inseparabi­li cercatori di senso, si ritrovano davanti alla locandina di un locale di spogliarel­li. Il fotografo chiede allo scrittore: «Che facciamo, entriamo?». «Entriamo», risponde Sciascia. I due fanno il loro ingresso nel locale deserto. Siedono a un tavolo e subito si palesa una ragazza che sulle note di una musica diffusa da un registrato­re comincia a spogliarsi. Scianna guarda furtivamen­te lo scrittore che, a sua volta, osserva di sottecchi il compagno di disavventu­ra. Entrambi, imbarazzat­i, distolgono lo sguardo dalla scena quando finalmente Scianna sussurra a Sciascia: «Che facciamo, usciamo?». «Usciamo», borbotta l’altro e quando una volta fuori, camminando per un bel pezzo in silenzio, Sciascia riprende a parlare, dice: «In quel posto, caro amico, l’unica cosa pornografi­ca eravamo noi due».

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L’ ILLUSTRAZI­ONE DI QUESTA PAGINA E LE DUE SUCCESSIVE SONO DI SR GARCÍA

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